Nato a Milano, vivo però da 40 anni a Varese, città-giardino di cui mi sono innamorato. Sto cercando di tratteggiare la storia industriale di Varese che è oltremodo ricca: mi sono imbattuto così, in una società, la ‘Carrozzeria Macchi’, che fu fondata nel 1845 a Cassano Magnago. Si mise a produrre veicoli da viaggio a trazione animale, omnibus e carri di varia natura e dimensione. Pura tecnologia del falegname e del fabbro. Un buon ‘eccipiente’ di produzione che poteva essere venduto a tante aziende concorrenti diverse fu la ‘ruota di legno’: serviva per i veicoli, ma anche e molto per i cannoni: a Varese ancora oggi c’è una ‘piazzetta del ruotificio’ che ricorda questa storia.

Sembra che gli affari siano sempre stati prosperi: con l’avvento del motore a scoppio vennero inserite produzioni di omnibus a trazione motorizzata. Con la Prima guerra mondiale le ruote stavano già pesantemente passando alla fase ‘metallica’, tecnologia per cui la C. Macchi non era attrezzata. Avevano sentito che a fine 1903 in America i due fratelli Wright avevano fatto volare un marchingegno nuovissimo, chiamato ‘Flyer’ (volatore). All’inizio dell ‘900 questi industriali varesini dalla vista lunga avevano già ottenuto licenze francesi per la fabbricazione di aeroplani: nacquero così i ‘Nieuport-Macchi’ e poi la lunghissima famiglia di aerei Macchi che ancora vive e prospera. Questi signori hanno fatto un’operazione che pochissimi imprenditori concretano, hanno ‘diversificato’. E quell’impresa, fondata nel 1845, ‘vive’ da ormai 172 anni: è più anziana dello Stato Italiano…

La ‘diversificazione’ è l’altra faccia della medaglia della ‘delocalizzazione’. Se un imprenditore insieme alla delocalizzazione si impegnasse concretamente anche nella ‘diversificazione’ la quadra del problema sarebbe automatica. Il guaio è che ben pochi imprenditori mostrano di considerare questa arte come una sorta di dovere professionale: quando invece è ferrea legge di mercato che ogni prodotto abbia una sua ‘vita’ limitata e che ogni prodotto sia candidato a essere sostituito da un nuovo prodotto (cannibalizzante) più performante, più costoso e, solo in teoria, meglio in grado di rispondere ai fabbisogni dell’uomo che, a loro volta, subiscono cambiamenti.

Purtroppo ogni imprenditore è un uomo. E ogni uomo è sottoposto alla quotidiana tentazione di cercare di continuare a fare ciò che già sa fare: il cervello è il muscolo più abitudinario che il Padreterno ci ha donato, sta a noi svegliarlo e farlo funzionare guardandosi in giro con vista lunga. Ma il nostro imprenditore ha una magagna in più rispetto alla media dei Paesi evoluti: nella fase dell’industrializzazione nazionale ha generato una quantità incredibile di aziende e aziendine. Si calcola che il 95% delle nostre imprese abbia meno di 50 dipendenti: polverizzazione pura. E il comico è che ancora oggi un mare di soloni va cianciando che ‘piccolo è bello’….: sarà, di certo non sempre.

Quanto più un imprenditore è piccolo, tanto più difficilmente riesce a vedere i nuovi sbocchi di mercato e, men che meno, i nuovi prodotti. E anche quando è un grosso imprenditore, tenere la testa sveglia e attenta sulle novità e sulla contemporanea decadenza del proprio prodotto non è cosa facile, ma è assolutamente doverosa. L’imprenditore è l’unico che ha il compito, il dovere e la possibilità di sviluppare questa azione manageriale fondamentale.

Nella nostra storia abbiamo molti casi positivi. Per esempio, mi piace ricordare in breve la storia della Snia Viscosa, nata come Snia, Società navigazione italo americana, a Torino nel 1917. Subito dopo il conflitto crollarono i traffici atlantici: occorreva ‘diversificare’. E quanto a diversificazione i soci fondatori hanno davvero manifestato fantasia e acume: nacque una società chimica che divenne leader nel mondo. E precorse di gran lunga i tempi nei quali si sarebbero poi presentati al mercato tanti prodotti succedanei del petrolio e sostitutivi di tanti tessili a base laniera e cotoniera.

Si apre così una riflessione: è colpa degli imprenditori nostrani se non vediamo moltissimi casi di diversificazione mentre ne notiamo moltissimi di delocalizzazione? NO. Proprio no, assolutamente no. E non è neppure colpa dei politici, sempre bistrattati e sotto accusa: probabilmente è proprio colpa di una cultura che a me piace tanto, ma che ci ha recato e tuttora reca molti danni (è solo un mio parere, ma molto convinto) che è la cultura della Magna Grecia, una cultura che tende a esaltare il singolo e non ha molto a cuore il concorso di molti, esalta il genio molto più che la coordinazione e il ricercatore.

Ed è proprio qui che il nostro sistema di leadership deve cominciare a riflettere. Uno Stato moderno capisce che può fare molto per la diversificazione dei suoi imprenditori: operazione da farsi ‘prima’ che questi abbiano a trovarsi in crisi.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Lavoro, Istat: “Nel primo trimestre 326mila occupati in più, ma solo un terzo stabile. Salgono anche i disoccupati”

next
Articolo Successivo

Porto Gioia Tauro, 400 lavoratori a rischio licenziamento. Quale futuro per questo hub?

next