Puerto Rico vuole essere il primo Stato ispanico a stelle e strisce: con un referendum plebiscitario l’ex colonia spagnola ha scelto di essere il 51esimo degli Stati Uniti d’America. Quasi il 97% dei votanti si è espresso a favore; il referendum tuttavia aveva solo valore consultivo, ed è stato largamente boicottato dall’opposizione. La bassissima affluenza però inficia il valore politico della consultazione: solo il 22,7% dei 2,2 milioni di aventi diritto è andato alla urne, meno di 1 elettore su 4. Il governatore Ricardo Rossello ha comunque promesso di voler difendere a Washington la volontà degli elettori. Nonostante la vittoria, bisogna fare i conti con la volontà dell’amministrazione Trump: il Congresso, attualmente a maggioranza repubblicana, difficilmente sarà disposto ad approvare l’ingresso di uno stato a maggioranza democratica come Puerto Rico, per di più gravato da un un imponente debito pubblico.
È il quinto referendum dal 1967 sullo status dell’isola caraibica. Tre le opzioni possibili: diventare il 51esimo stato americano, l’indipendenza o il mantenimento dello status quo di territorio, dove attualmente chi nasce ha la cittadinanza americana ma non può votare per il presidente e ha un solo rappresentante al Congresso. Il referendum è stato promosso proprio perché molti vedono in questo status politico quello di una colonia, ma è stato boicottato dal partito di opposizione Popolare Democratico e dal più piccolo partito Indipendenza. Il governatore Rossello, membro del New Progressive Party, sosteneva fortemente l’ingresso negli Stati Uniti, con annesso diritto di voto: “Ci presenteremo sulla scena internazionale per difendere l’importanza di vedere Puerto Rico diventare il primo Stato ispanico degli Stati Uniti”. Ottenere la piena ammissione a stelle e strisce potrebbe consentire inoltre all’isola di affrontare meglio i 73 miliardi di dollari di debiti accumulati, per i quali è stato costretto a dichiarare la più grande bancarotta municipale della storia Usa. I portoricani vedono l’origine della crisi proprio nella politica di Washington: dal 2006 infatti il governo federale ha soppresso le esenzioni fiscali su cui aveva prosperato e i grandi gruppi americani se ne sono andati in massa.