di Federica Fabbretti e Marco Bertelli*
Martedì 6 giugno eravamo presenti nell’aula della Prima Corte d’assise del tribunale di Milano dove Rocco Schirripa è imputato del reato di concorso in omicidio di Bruno Caccia, procuratore capo di Torino e primo magistrato ad essere assassinato dalle mafie al nord d’Italia. Il dottor Caccia fu ucciso il 26 giugno 1983, a pochi passi dalla propria abitazione, dai colpi esplosi di due killer non ancora identificati con certezza. Abbiamo ascoltato l’avvocato Fabio Repici esporre le conclusioni difensive a nome dei familiari del magistrato: i figli Paola, Cristina e Guido e i nipoti Martina e Lorenzo. Più di sei ore di intervento (otto, se consideriamo la prima parte della settimana precedente), durante le quali il legale non solo ha esposto gli elementi che, in base alla sua ricostruzione, dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio la partecipazione dell’imputato Rocco Schirripa alla fase esecutiva del delitto. Ma ha anche sottolineato i vuoti investigativi che, secondo i familiari del dottor Caccia, hanno caratterizzato le indagini e il dibattimento del processo in corso.
L’avvocato Repici ha evidenziato l’impossibilità di ricostruire compiutamente il movente dell’omicidio del procuratore Caccia. Non sono state raccolte, infatti, né in fase di indagine né in fase dibattimentale, le dichiarazioni dei colleghi dell’epoca del dottor Caccia, i quali avrebbero potuto riferire di pericoli avvertiti dal magistrato o confidenze da lui ricevute. Durante il processo non è stato sentito neppure il figlio, Guido Caccia, in merito a quanto suo padre gli confidò poco prima di essere ucciso: “Nei prossimi giorni succederà una cosa enorme“. Secondo i familiari di Bruno Caccia, pertanto, non sono stati acquisiti elementi gli indispensabili per capire perché Domenico Belfiore, affiliato alla ‘ndrangheta e condannato in via definitiva quale mandante dell’omicidio, pianificò l’uccisione del magistrato proprio a fine giugno 83, oltre un anno dopo la deliberazione del delitto.
Il giorno successivo all’udienza, cercando notizie sugli organi di informazione, ci è capitato di leggere un lancio Ansa in merito e siamo rimasti basiti. L’agenzia riportava l’importo del risarcimento chiesto dai familiari della vittima, menzionava una “pista alternativa che intreccia mafia e servizi segreti e che da tempo ormai la famiglia del magistrato ammazzato sta portando avanti” e si concludeva con una citazione del legale: “Si è preso l’albero per non prendere l’intero bosco”. Ci chiediamo cosa possa aver capito, dal lancio Ansa, un lettore che non avesse assistito all’udienza. Infatti, definire le conclusioni del legale di parte civile basate su una pista “alternativa” è piuttosto fuorviante, visto che lo stesso legale ha sollecitato la condanna dell’imputato, come richiesto dalla procura.
Il fatto è che, per i familiari del magistrato ucciso, il ruolo di Schirripa va inquadrato in un contesto molto più articolato di quello emerso dalle indagini della procura e dal dibattimento. Si tratta del “bosco” cui ha fatto riferimento l’avvocato Repici, ovvero “l’area di accordi illeciti tra aggregati mafiosi (calabresi e catanesi, nda) e pubblici poteri” che ruotava, nei primi anni Ottanta, attorno al riciclaggio di denaro della criminalità organizzata presso il Casinò di Saint Vincent ed altre case da gioco.
Per chi sia interessato a conoscere le conclusioni dei familiari del procuratore Caccia, assistiti dal consulente – e magistrato in congedo – Mario Vaudano e dell’avvocato Repici, pubblicheremo a breve sul sito 19luglio1992.com la trascrizione integrale delle udienze milanesi del 25 maggio e del 6 giugno. Un modo per far sì che il “bosco”, solo parzialmente illuminato con l’arresto di Rocco Schirripa, non sia ridotto davanti alla pubblica opinione ad una mera questione di risarcimenti economici o di semplici ritorsioni da parte della criminalità organizzata.
*collaboratore di Salvatore Borsellino, Marco Bertelli è fra i fondatori dell’associazione Agende rosse e del sito 19luglio1992.com.