C’è in corso una battaglia – anche fisica – in Senato sullo Ius soli di cui poco si capisce, fuori dai tatticismi. Il Movimento Cinque Stelle ha annunciato che vota contro al disegno di legge che modifica le regole per l’accesso alla cittadinanza dei figli di genitori stranieri. Non volendo ammettere (e perché? prendetevi la responsabilità…) che sia una mossa tattica per inseguire i voti che vanno verso destra, accampa spiegazioni iperpolitiche, tipo che il disegno di legge “oggi viene tirato fuori per dare un minimo contentino alla sinistra che Renzi torna a blandire, mentre coltiva l’eterno inciucio con il Pdl”. Poiché si parla della qualità della vita e della dignità di 800mila persone, peraltro minorenni, non possiamo limitarci a dar conto delle baruffe tra partiti.
In base alla legge italiana (92 del 1991) acquistano la cittadinanza italiana coloro che hanno almeno un genitore italiano. E’ lo Ius sanguinis, il diritto per sangue. Poi c’è lo Ius soli, che già esiste, ma viene applicato in modalità “residuale”, cioè a pochi casi specifici: chi nasce in Italia da genitori ignoti o apolidi, cioè privi di cittadinanza, magari abbandonati e cui non è possibile attribuire alcuna cittadinanza. O chi nasce in Italia e non può ottenere la cittadinanza dei genitori perché lo Stato da cui provengono lo impedisce.
L’intenzione del legislatore sullo Ius soli, fin dal 1991, mi sembra abbastanza chiara: se qualcuno nasce in Italia e non ha un’altra patria a cui tornare, uno Stato di cui si possa sentire cittadino, allora deve essere italiano. Per il suo bene, ma anche per quello della Repubblica Italiana: meglio avere dei cittadini con diritti e doveri, anche se con geni stranieri, piuttosto che dei senza patria che si sentono privi di legami con la collettività che li ospita.
Con queste premesse, il disegno di legge in discussione in Senato sembra una naturale evoluzione, perfino troppo timida. Quale sarebbe la patria di un figlio di marocchini e albanesi che è nato e cresciuto nella periferia di Roma o in centro a Bologna? Magari senza neppure sapere l’arabo o l’albanese perché ha frequentato soltanto scuole italiane. Già ora lo straniero nato in Italia può diventare cittadino italiano a condizione che vi abbia risieduto “legalmente e ininterrottamente” fino alla maggiore età, cioè 18 anni. Ma 18 anni sono tanti. Come stiamo vedendo nelle cronache che arrivano da tutta Europa dopo ogni strage terroristica, il disagio per sentirsi esclusi, ai margini, matura molto prima.
E i dati dell’Istat dimostrano che questi giovani quasi-italiani vogliono sempre più essere cittadini a pieno titolo. Tra 2011 e 2014 il numero di persone non comunitarie che diventano italiane è passato da 50.000 a 120.000. E sempre di più sono ragazzi che a 18 anni scelgono di optare per l’appartenenza al Paese che li ha cresciuti.
Il disegno di legge in discussione in Senato prevede alcuni correttivi che dovrebbero costruire un legame più forte tra chi ha un’identità inevitabilmente italiana (magari non l’unica) e lo Stato cui deve contribuire. Può acquisire la cittadinanza, infatti, chi nasce in Italia da genitori stranieri almeno uno dei quali con un diritto di soggiorno permanente, quindi con un periodo di residenza di almeno 5 anni, un alloggio adeguato e dopo aver superato un test di lingua. Il genitore va all’anagrafe e chiede la cittadinanza per il figlio, visto che la norma si applica per i minorenni (la novità per i maggiorenni è che avranno due anni e non uno per scegliere la cittadinanza italiana).
Poi c’è la novità dello Ius culturae: vale per chi è nato in Italia o ci è arrivato prima dei 12 anni. Può avere diritto alla cittadinanza se ha frequentato la scuola regolarmente per almeno cinque anni in Italia. Se si tratta del ciclo delle elementari, deve anche superare l’esame finale. Visto che si tratta di minori, tocca sempre al genitore fare richiesta. E il genitore deve avere il permesso di soggiorno. Un bambino formato dallo Stato italiano, secondo i criteri decisi dal ministero dell’Istruzione, perché non dovrebbe essere un futuro buon cittadino?
Secondo la Fondazione Leone Moressa, visto che ogni anno nascono in Italia 70-80 mila bambini da genitori stranieri, ci saranno circa 50.000 domande di cittadinanza annue. Si tratta di persone che già sono qui, in Italia, non di nuovi ingressi.
L’obiezione è la solita: rischiamo di creare un “pull factor”, cioè un fattore di attrazione. Ancora più persone vorranno venire in Italia se sanno che è più facile per i loro figli diventare italiani. Forse è vero. Ma questo argomento ne implica un altro: che per scoraggiare siriani, libici, marocchini, tunisini noi preferiamo consapevolmente rendere la vita più difficile a degli incolpevoli bambini che già sono in Italia. Che vogliamo escluderli dalla comunità nazionale perché il loro disagio ci è funzionale ad arginare l’ondata migratoria. O almeno a rassicurare gli spaventati e un po’ razzisti elettori che guardano troppa tv che la politica sta tenendo conto delle loro paure e fobie. Con tutti i danni di lungo termine che questo può comportare, perché come abbiamo visto non è consigliabile allevare generazioni di giovani disadattati.
E’ una scelta politicamente legittima, anche se moralmente discutibile. Ma è anche il genere di tema su cui è utile e forse necessario che le forze politiche si polarizzino, che rendano esplicite le loro posizioni.
Così, poi, ognuno avrà un elemento in più per decidere chi votare alle prossime elezioni.