La procedura di rimozione del presidente per “Tradimento, corruzione o altri alti crimini e violazioni” è un giudizio del Congresso. E il magnate gode ancora di forte sostegno da parte dei settori più fedeli del suo elettorato. Difficile che i repubblicani si lascino convincere dai democratici a una mossa drastica: resterà comunque uno stato di conflitto continuo
C’è un paradosso nell’indagine su Donald Trump per “intralcio alla giustizia”. Per mesi il presidente ha chiesto a James Comey, allora direttore dell’Fbi, di dire pubblicamente che l’inchiesta sul ruolo della Russia nelle presidenziali 2016 non lo coinvolgeva. Per almeno tre volte Comey gli diede, in privato, assicurazioni che non c’era alcuna inchiesta aperta su di lui. Poi però Comey è stato licenziato da Trump proprio per il suo modo di condurre l’inchiesta sulla Russia. E il presidente, da non-indagato, è diventato indagato.
Comey, durante l’audizione davanti alla Commissione Intelligence del Senato, ha detto di aver passato tutti i documenti e la trascrizione dei suoi colloqui con il presidente a Robert Mueller III, lo special counsel nominato per condurre un’inchiesta indipendente (anche su di lui, nei giorni scorsi, sono circolate voci non esattamente confortanti: si è detto che Trump sarebbe pronto a licenziarlo). Mueller quindi, come imposto dal suo ruolo e dalle circostanze, ha cominciato a indagare attorno a alcune ipotesi. Donald Trump, licenziando Comey, ha cercato di bloccare l’inchiesta sulla Russia? Il presidente, dicendo di “sperare” che Comey lasciasse perdere l’indagine su Mike Flynn, ha abusato della sua autorità cercando appunto di “intralciare” la giustizia?
E’ ancora troppo presto per dare una risposta. L’indagine è all’inizio e bisogna capire cosa c’è nelle carte che Comey ha consegnato a Mueller e cosa diranno gli altri tre responsabili dell’intelligence americana – Dan Coats, direttore della National Intelligence; Mike Rogers, direttore dell’NSA; Richard Ledgett, fino a poche settimane fa direttore dell’NSA – che sono stati convocati da Mueller. A molti però non sfugge un parallelo storico che in queste ore emerge e che sembra sempre più perseguitare Trump: quello con Richard Nixon, che fu, anche lui, accusato di “aver prevenuto, ostruito e impedito l’amministrazione della giustizia”. Nel caso di Nixon l’accusa venne formalizzata – era il 1974, la storia quella del Watergate – dalla Commissione giustizia della Camera. Nel caso di Trump c’è invece soltanto un’ipotesi di reato. Ma il parallelo può funzionare, con le sue somiglianze e le differenze, anche solo per capire se e come si potrà andare a una richiesta di impeachment per Trump.
Ma andiamo per ordine. Anzitutto, cos’è l’“obstruction of justice”? L’intralcio alla giustizia è, secondo il 18 U.S. Code § 1503 “ogni lettera o comunicazione che influenza, ostruisce o impedisce o cerca di impedire la dovuta amministrazione della giustizia”. Detto questo, è completamente irrilevante che Trump abbia “impedito l’amministrazione della giustizia” secondo gli standard del codice penale americano. Il presidente degli Stati Uniti non è infatti un cittadino comune, soggetto alle sentenze dei tribunali. E’ anzi “costituzionalmente immune” da qualsiasi tipo di accusa o procedimento penale; lo ribadisce un memorandum del Dipartimento alla Giustizia del 2000. Quello che non si può fare in un normale tribunale, lo si può però fare nelle aule del Congresso. L’articolo II, Sezione 4 della Costituzione prevede che ogni funzionario degli Stati Uniti, quindi anche il presidente, possa essere rimosso dalla sua posizione per “Tradimento, Corruzione o altri Alti Crimini e Violazioni”.
E’ questo, per l’appunto, l’impeachment. Il processo inizia alla Camera dei Rappresentanti, che mette sotto accusa il presidente (o altro funzionario statale). Se la mozione di impeachment conquista la maggioranza, passa al Senato, sotto la presidenza del chief justice della Corte Suprema. I senatori fungono quindi da giurati; se due terzi tra loro ritengono fondate le accuse, il presidente viene rimosso dall’incarico e generalmente bandito da ogni altra posizione “di onore, Fiducia o Profitto negli Stati Uniti”. Come si vede, dunque, l’impeachment è un giudizio politico, e non passa per i canali tradizionali della giustizia penale Usa. Le stesse ragioni che possono far partire un procedimento di impeachment, “Tradimento, Corruzione o altri Alti Crimini e Violazioni”, sono piuttosto vaghe e flessibili: segno che viene data ampia discrezionalità a deputati e senatori, nel caso individuino delle ragioni politiche sufficientemente gravi per rimuovere un presidente – ragioni che però non devono per forza riguardare un reato penale.
Gli unici presidenti messi sotto impeachment, nella storia statunitense sono stati Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998. In entrambi i casi, il procedimento arrivò davanti al Senato, che scagionò i due. Nixon, il presidente di solito più associato all’impeachment, non subì in realtà l’onta dell’impeachment. Dopo che la Commissione Giustizia della Camera approvò tre capitoli di impeachment contro di lui, e prima che il caso passasse alla Camera, Nixon si dimise. Il primo capo d’accusa suonava straordinariamente simile al linguaggio del 18 U.S. Code § 1503. Nixon, a giudizio della Commissione della Camera, aveva “prevenuto, ostruito e impedito… la dovuta amministrazione della giustizia”.
E’ interessante notare a questo punto che la vicenda del Watergate offre delle similarità con quella di Trump, ma anche delle differenze sostanziali. La prima similarità è quella dell’intralcio alla giustizia. Nixon fu messo sotto accusa per aver cercato di insabbiare l’inchiesta sul Watergate: in particolare, per aver suggerito che funzionari dell’amministrazione intervenissero su Richard Helms, direttore della Cia, e sul suo vice Vernon A. Walters per chiedere all’acting director dell’Fbi, L. Patrick Gray, di bloccare l’indagine. Nello stesso modo, Trump sarebbe intervenuto, direttamente e senza l’azione di intermediari, sul direttore dell’FBI Comey per far cadere l’indagine su Flynn. Non avendo ottenuto la risposta che si aspettava, avrebbe licenziato Comey.
Esiste però un’altra somiglianza tra il Watergate e il Russiagate. Nixon fu messo sotto accusa anche per aver fatto “commenti pubblici falsi o fuorvianti con l’obiettivo di far credere al popolo degli Stati Uniti che una dettagliata e completa indagine era stata condotta in merito alle accuse di cattiva condotta da parte del personale del ramo esecutivo”. Nello stesso modo, Trump si è più volte scagliato contro l’indagine sulle interferenze russe alle elezioni, definendola “una bufala totale” e “una farsa pagata dal contribuente… che si sarebbe dovuta chiudere molto tempo fa”. Nel caso di Nixon e in quello di Trump c’è quindi un’altra somiglianza: entrambi si sarebbero rivolti agli americani per screditare, o comunque togliere valore, all’inchiesta.
Individuate le somiglianze, va detto che tra Nixon e Trump resta, al momento, una certa differenza. La difesa di Nixon si inabissò di fronte alle registrazioni dei suoi colloqui alla Casa Bianca, che lui cercò strenuamente di non far uscire; in particolare, gli fu fatale proprio la conversazione registrata, non a caso chiamato lo “smoking gun tape”, in cui ordinava di intervenire sull’FBI per bloccare l’inchiesta. Nel caso di Trump, almeno al momento, non c’è “smoking gun”. Lo stesso Comey, durante l’audizione al Senato, ha detto che Trump gli avrebbe detto di “sperare” che l’indagine contro Flynn venisse fatta cadere, e i supporter del presidente hanno avuto buon gioco a segnalare che “sperare” non è “ordinare” e quindi Trump non ha intralciato nulla. Tutta la testimonianza di Comey è stata del resto intessuta di impressioni, più che di “prove fumanti”. A suo giudizio, Trump sarebbe intervenuto su di lui, e su un’indagine in corso, in modo “inappropriato”. Ma che sia intervenuto per bloccare l’inchiesta è al momento più un’interpretazione che un fatto.
C’è, tra i casi di Nixon e di Trump, un’altra fondamentale differenza. L’impeachment è, come detto, un giudizio politico e molti repubblicani, ai tempi di Nixon, si convinsero che il presidente non era più difendibile. La loro opinione rifletteva un giudizio ormai ampiamente diffuso nell’opinione pubblica americana. Di più, sia il Senato sia la Camera avevano allora una maggioranza democratica. La situazione oggi è sensibilmente diversa. Trump ha sì indici di popolarità molto bassi, ma la politica americana è molto più polarizzata rispetto al 1974 e il presidente continua a essere sostenuto dai settori più fedeli del suo elettorato (cui, di recente, ha “regalato” l’uscita dall’accordo di Parigi). Entrambi i rami del Congresso sono poi a maggioranza G.O.P. ed è molto improbabile che i repubblicani si lascino convincere dai democratici a prendere misure così drastiche nei confronti del loro rappresentante.
Quello che possiamo aspettarci, allora, è uno stato di conflitto continuo, più o meno eclatante, con un’inchiesta dai tempi lunghissimi che assorbe tutte le energie politiche, impedisce l’attuazione del programma legislativo senza però sfociare in un’aperta messa sotto accusa di Trump. Le cose però potrebbero cambiare velocemente. Se, per esempio, i repubblicani uscissero dalle elezioni di midterm seriamente danneggiati dagli scandali, potrebbero essere tentati di liberarsi di un presidente che ormai crea troppi problemi. Altro fattore scatenante potrebbe essere la rivelazione di qualcosa di troppo grosso e troppo imbarazzante per Trump, tale da lasciarlo in balia degli attacchi democratici e indifendibile per il suo stesso partito.