Nero della parte più profonda e povera dell’Africa, giramondo clandestino, tossicodipendente e spacciatore: che ci si può aspettare? Giustamente finisce in galera e, dopo qualche anno di turismo carcerario in giro per istituti, approda a Rebibbia. Dove, ci si creda o no, racconta di aver avuto una catarsi, “una rinascita”. Complici, stavolta, la custodia attenuata della Terza Casa Circondariale a Roma, le molte opportunità offerte, un lavoretto interno e soprattutto l’incontro con il mondo della scuola, della cultura.

Appena nato, nel Ruanda degli anni peggiori, la sua famiglia si trasferisce in Tanzania, da cui scappa ancora minorenne. Africa, America, Cina, infine Europa, ne ha viste di nefandezze nel mondo. È convinto che se ci fosse più istruzione, più “educacione” dice lui con radici anglofone, molti problemi non sorgerebbero: “È l’ignoranza, prof, che fa fare tante cose cattive”.

Infatti si appassiona allo studio, divora ogni ora di lezione, ogni approfondimento, ogni lettura proposta. Vuole imparare a scrivere, comunicare al mondo l’equilibrio che gli sembra di aver raggiunto. In carcere si è sentito finalmente più libero di quanto credeva di essere fuori, in strada, dove trovava facilmente soldi, donne, contatti, tutto quel che poteva desiderare. Vorrebbe trovare il modo migliore di esprimersi per mettere in guardia i bambini, come il suo che non vede ormai da dieci anni; avvertirli che droga, alcool e soldi facili sono tutte illusioni, cose che non arricchiscono se non in maniera superficiale, apparente.

In carcere si fa ben volere: tutti sanno che tra i compagni di detenzione, ex tossicodipendenti tra cui sono diffusissimi gravi problemi psicologici, gioca un ruolo di fondamentale importanza. Con la sua disponibilità, il suo sorriso, la sua buona parola, sempre pronto a disinnescare conflitti, a ridimensionare le fonti d’ansia. Grazie alla sua buona condotta, dallo scorso autunno gli viene concesso di finire di scontare la pena in una comunità di recupero. Anche lì si fa apprezzare e trova un aiuto per tentare di mettere a posto le sue carte, avere l’asilo politico per poi cercarsi un qualunque lavoro onesto.

Però, prima di ogni cosa vuole finire il suo percorso scolastico e diplomarsi. Dalla tarda primavera, gli viene concesso di uscire per alcune ore e tornare da noi a Rebibbia. L’appuntamento è nel punto vendita del forno della Terza Casa, dove lavorano molti suoi ex compagni detenuti. Si tratta di una specie di limbo, uno spazio del carcere dove il muro è stato aperto e anche gli esterni possono entrare a degustare ciò che viene cucinato all’interno.

Noi professori ci siamo accordati, con la “flessibilità”, per alternarci a impartire lezioni. Il problema all’inizio è stato che non si riusciva a tenere il filo del discorso: vedendolo attraverso la telecamera collegata a un monitor della adiacente portineria del carcere, troppe persone venivano a salutarlo. Abbracci, battute scherzose, risate, non solo da parte di altri docenti, volontari, educatrici, psicologhe ma soprattutto di molti agenti di polizia penitenziaria. Ecco, questa cosa mi è apparsa davvero straordinaria: un altro muro è stato abbattuto. Nelle parole di una “guardia” di lunghissima esperienza: è uno di quei rari casi in cui il carcere ha fatto veramente bene. Tutti noi operatori “trattamentali” possiamo dire, per una volta, che i nostri sforzi hanno avuto buon esito nel reinserimento, forse. Molto più comune, purtroppo, il caso di quell’altro suo compagno di classe e di detenzione che, appena fuori, è stato preso a fare una rapina al supermercato.

 

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