Società

Ius soli, quando gli immigrati eravamo noi

I miei bisnonni non avevano mai visto il mare. Dalle campagne del Monferrato anche se ti metti sul “bricco” più alto non ci riesci.

Lo hanno conosciuto arrivando faticosamente a Genova, prendendone confidenza dal ventre dello scafo in cui i “bastimenti” inghiottivano i passeggeri di terza classe, quelli che avevano addirittura una biglietteria separata da quella di chi non viaggiava per necessità. Settimane e settimane di traversata in condizioni inumane, poi la quarantena ad Ellis Island, infine un ingresso nel “Nuovomondo” che solo una disperata speranza poteva far sembrare salvifico.

Il racconto della mia bisnonna Maria, Elvira sul suo ingiallito passaporto, mi ha segnato profondamente. “Nuova York” era il capolinea dei sogni. Per i più fortunati il punto di partenza di aspirazioni, desideri, ambizioni.

Suo figlio Bartolomeo Delprino, lo zio Romeo, quando nel 1920 tornarono negli Stati Uniti dopo una breve permanenza in Italia, nei registri dell’Immigration Service vedeva il suo nome preceduto da un timbro. “US Citizen” si legge ancor oggi sulla lista di chi era sbarcato dalla nave “America”. Romeo era nato negli Stati Uniti che lo avevano riconosciuto figlio di quella terra.

Chissà quanti – tra coloro che stanno leggendo queste mie poche righe – potrebbero narrare analoghe epopee familiari, ricordare storie dolorose e inaspettati “lieto fine”, farsi venire le lacrime agli occhi al pensiero di tanti sacrifici e difficoltà, avere impresso la strenua forza di sentirsi uguali agli altri che ha animato qualunque nostro trisavolo involontariamente catapultato lontano da casa.

A distanza di un secolo dalle nostre parti si discute dello “ius soli” e in troppi si sono dimenticati la nostra storia.

Con toni più o meno beceri parecchi politici (o soggetti che si dichiarano tali) hanno vomitato i loro sproloqui nella ferrea convinzione di cavalcare l’onda emotiva dello tsunami sociale in corso.

La nostra Italia non versa nelle attuali drammatiche condizioni per colpa degli immigrati, ma grazie a quei nostri connazionali che l’hanno portata alla catastrofe magari “mangiando” sull’arrivo e sulla permanenza di questi “indesiderati”. Lo Stato latita, affida in concessione attività indelegabili e apre redditizi varchi agli “scafisti anidri” ovvero a quegli sciacalli che non devono nemmeno bagnarsi i piedi per speculare sulla disperazione.

C’è bisogno di ordine, certo. Ma non è negando la cittadinanza a chi nasce dalle nostre parti che si rimedia a uno sfascio senza fine.

Chi ha urlato contro lo “ius soli” dovrebbe vergognarsi: gli immigrati in regola pagano tasse e contributi, e lo fanno in silenzio pur sapendo che quelle somme non daranno loro nulla. I loro figli, come la buonanima di Bartolomeo Delprino, sono figli di questa terra.

Non smetto di domandarmi perché chi non vuole “intrusi” non si faccia promotore di una bella proposta di legge per togliere ogni diritto civile a chi evade il fisco, a chi viola la legge e a chi non la fa rispettare, a chi con la corruzione ha minato le fondamenta della Pubblica Amministrazione, e così a seguire.

Ma – Papa Francesco a parte – nessuno sembra preoccuparsi delle cose serie e indifferibili.