Nelle carte dell'inchiesta che ha portato in carcere quattro sfruttatori emergono la vita e gli stenti delle 15 donne brindisine e tarantine disposte a tutto pur di lavorare anche 13 ore per 35 euro: chi deve tirare avanti la famiglia perché ha il marito in carcere, chi deve pagare le frequenti cure del figlio gravemente malato. Per il gip, "vittime inermi e incapaci di reagire"
“Amo’, gliel’ho detto già stamattina e non mi ha fatto scendere”. È il 30 giugno dello scorso anno e Angela avrebbe bisogno di tornare a casa. Ma è costretta a rimanere nei campi e per questo piange a dirotto al telefono con il marito, “palesemente affranta dall’impotenza di poter far valere i suoi diritti“. Il suo presunto caporale, Michelangelo Veccari, infatti, non ne vuole sapere. Del resto, lo dice più volte a mo’ di avvertimento mentre è intercettato dai carabinieri: “Comando io, non vi dimenticate mai…“. Così quel giorno Angela sarà costretta a rimanere piegata sui campi per 13 ore.
Vittime inermi, incapaci di reagire – È una delle quindici braccianti brindisine e tarantine che per 35 euro al giorno accettavano di raccogliere ciliegie e uva nelle campagne del Barese. Durante “il lungo ed estenuante turno di lavoro venivano costantemente incitate a lavorare, senza nemmeno la possibilità di scambiare una parola”, è il commento del gip del tribunale di Brindisi Maurizio Saso che lunedì ha disposto l’arresto di quattro caporali. Storie di “vittime inermi e incapaci di reagire”, disposte a tutto pur di guadagnare. Chi a causa di una malattia da curare, chi per debiti e bollette da pagare, chi per colpa di una separazione.
I debiti di Katiuscia e l’acqua di Carmela – Annunziata era stata anche picchiata dopo aver trovato il coraggio di alzare la testa. Daniela subiva perché suo figlio, 22 anni, soffre di “una grave malattia che lo costringe a frequenti e onerosi ricoveri in ospedale a Roma assistito dai genitori”. Vita, invece, ha il marito in carcere e una famiglia da portare avanti. Adriana e suo marito hanno visto i servizi sociali sottrarre la loro figlia “a causa delle precarietà delle loro condizioni”. Katiuscia deve pagare “un debito con Equitalia per un importo di 2.000 euro”. Carmela è così indigente da essere “incapace di fare fronte alle spese di erogazione dell’acqua per le quali era morosa e rischiava l’interruzione della fornitura”. E poi c’è Fanica, ragazza madre romena, con i suoi sogni di una vita migliore racchiusi in un appartamento “fatiscente dal fitto di 200 euro mensili”.
Lavoro come “strumento di intimidazione” – Una povertà che sembra uscita dalle pagine de Le Ceneri di Angela di Frank McCourt, anche se la Limerick degli anni Trenta è lontana quasi un secolo e diverse migliaia di chilometri dai paesi alle porte del Salento, dove queste ‘schiave’ del ventunesimo secolo, quasi tutte italiane, sono costrette a spaccarsi la schiena tra cirasi e acini d’uva. Figlie del “ricatto occupazionale” che costituiva uno “tra i principali strumenti di intimidazione” grazie al quale Veccari e sua moglie – sostengono gli inquirenti – controllavano quelle braccianti che imparavano, affermava lui, a “pizza e mazzate”. Carmela, per esempio, il 22 giugno dello scorso anno dice a Veccari di essere disposta ad accettare la “punizione”, ovvero rimanere a casa per un giorno, perché non si era presentata a lavoro: “Il telefonino senza batteria si è scaricato, mi sono arrabbiata con i miei figli che non mi hanno dato nemmeno il caricatore. Io sto in una casa di merda te lo giuro”.
Case senza doccia né infissi interni – Mai quanto quella di Fanica. Quando i carabinieri si presentano nella sua abitazione per ascoltarla trovano una “totale assenza di comfort”. Fotografano il water nel soggiorno, separato solo da una struttura di plastica, e quell’unica camera da letto dove “non erano presenti mobili”. Il bugigattolo di Claudia, 200 euro al mese di affitto, invece, aveva arredamenti “palesemente logorati” e il bagno era “privo di doccia”. La ragazza poteva contare su un solo rubinetto di acqua corrente in tutta la casa. Angelina – costretta a lavorare per pagarsi le cure all’ernia del disco – non aveva neanche “gli infissi interni” e per questo, nonostante la malattia, era disposta “a sopportare i pesanti ritmi imposti”.
“Quello che tocca a me, è mio” – Per Veccari però non c’erano esigenze prioritarie di sorta, davanti ai soldi per la sua intermediazione. Il 18 luglio del 2016, Rosanna gli dice che deve “andare a pagare il bollettino per la patente, ho rimandato oggi, non posso aspettare un’altra volta”. Ma il caporale è chiaro, pretende la sua parte del compenso: “Quello che mi tocca a me, è mio! Non devo aspettare che tu devi cambiare l’assegno, capito che ti voglio dire?”. C’era chi, come Adriana, “era disposta – scrive il gip – anche a perdere una giornata lavorativa pur di assicurarsi il denaro in contanti per fare fronte alle sue necessità quotidiane”, invece di dover aspettare la possibilità di cambiare l’assegno. Supplicavano, spesso, il loro caporale. Nonostante tutto.
I servizi igienici nei campi – Nonostante, per esempio, le condizioni nei campi “contravvenivano sensibilmente il comune senso del pudore e le elementari regole di igiene”. Le parole sono di Fanica ai carabinieri: “Quando siamo in campagna non esistono servizi igienici e l’azienda ci fornisce una tenda per ripararci da sguardi indiscreti, espletando i bisogni fisiologici in una fossa praticata appositamente nel terreno”. In quella cloaca improvvisata, insieme al piscio, erano state costrette a seppellire la loro dignità.