La tragica morte dello studente statunitense Frederick Otto Warmbier ha riportato l’attenzione sulla situazione dei diritti umani in Corea del Nord.
Di questo paese sappiamo poco, anche perché i servizi di telefonia mobile internazionale e l’accesso a Internet sono negati a quasi tutti i cittadini. Per entrare in contatto con amici e parenti che vivono all’estero i nordcoreani che abitano vicino al confine con la Cina usano a grande rischio personale telefoni cellulari di contrabbando collegati a reti cinesi. Chi viene scoperto può essere condannato per spionaggio. Gli altri si affidano, pagando tariffe esorbitanti, a mediatori per poter effettuare brevi chiamate internazionali.
L’accesso alla rete è disponibile per un numero molto limitato di persone, che possono collegarsi soltanto a siti web locali e a servizi di posta elettronica nazionali. Nel settembre 2016, l’errata configurazione di un server in Corea del Nord ha rivelato che la rete conteneva solo 28 siti web, tutti controllati da organismi ufficiali o da imprese di proprietà statale.
Per conoscere cosa accade nel paese, escluso che i media possano svolgervi inchieste indipendenti (a settembre, con l’apertura di un suo ufficio a Pyongyang, l’agenzia France-Presse è divenuta uno dei pochissimi organi d’informazione stranieri a operare in Corea del Nord) le fonti sono fondamentalmente tre: i rapporti delle agenzie umanitarie, i racconti dei fuoriusciti (tra gennaio e settembre del 2016, 1.414 persone hanno lasciato la Corea del Nord e sono giunte in Corea del Sud), che necessitano ovviamente di riscontri, e le immagini satellitari.
Queste ultime hanno aiutato a ricostruire l’estensione dei campi di prigionia politica (kwanliso). Quelli di cui si sa di più sono quelli di Yodok e di Kaechon. Quest’ultimo, nel corso degli ultimi anni, è stato ingrandito: dal 2006 al febbraio 2013, 20 chilometri di perimetro intorno alla valle di Ch’oma-bong (70 chilometri a nordest della capitale Pyongyang) sono stati di fatto inglobati nel campo, con la relativa popolazione. Complessivamente vi si troverebbero almeno 120.000 persone sottoposte a sistematiche, diffuse e gravi violazioni dei diritti umani, tra cui i lavori forzati e la tortura.
Molte delle persone detenute in questi campi non sono state condannate per reati riconosciuti dal diritto internazionale bensì in base al criterio della “colpa per associazione” soltanto perché parenti di persone ritenute una minaccia per lo Stato.