L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e il poeta Giorgio Caproni, scelto per l’analisi del testo alla prima prova della maturità 2017, sono di attualità in questi giorni. E hanno fra loro un forte legame.
L’Ispra presenta il suo annuale rapporto sul consumo di suolo in cui si denuncia che in Italia è sì diminuito, ma non già grazie a norme che limitino il consumo stesso (il ddl sul contenimento del consumo di suolo, comunque pessimo, giace nei cassetti del parlamento da anni), bensì grazie alla crisi che fatalmente limita la realizzazione di nuove strutture e infrastrutture.
E comunque, pur con la crisi, in soli sei mesi – da novembre 2015 a maggio 2016 – sono stati sommersi sotto una colata di cemento e asfalto ben 5.000 ettari di territorio, cioè poco meno di 30 ettari al giorno e circa tre metri quadrati al secondo. Con quello che ne deriva a livello di servizi ecosistemici, come lo stesso Ispra ha evidenziato in un recente convegno organizzato dal M5S.
Il cemento avanza, un po’ più lentamente, ma avanza, persino nelle aree protette, come ho denunciato nel mio ultimo post.
Del resto, l’Italia non è neppure la maglia nera in Europa. Tra il 2000 e il 2006 la perdita media nell’Ue è cresciuta del 3%, con picchi del 14% nella già verde Irlanda e Cipro e del 15% in Spagna. Nel periodo 1990-2006, l’Unione Europea ha perso una potenziale capacità di produzione agricola pari complessivamente a 6,1 milioni di tonnellate di frumento.
Diciamo che comunque noi facciamo, nel male, del nostro meglio per distinguerci, visto che permettiamo che il consumo di suolo avvenga anche nella piena illegalità. Il fenomeno dell’abusivismo edilizio infatti all’estero è pressoché inesistente.
Cosa c’entra però Giorgio Caproni? C’entra perché con il tema di italiano alla maturità di quest’anno è salito alla ribalta con i suoi “Versetti quasi ecologici”, in cui lamenta la distruzione della madre terra a causa della continua ricerca del profitto. Saggiamente, il poeta però, denunciando con bei versi la perdita della natura, non nutre alcuna speranza per il futuro ed anzi conclude: “Come potrebbe tornare a essere bella, scomparso l’uomo, la terra”.
Detto altrimenti: forse prima ci togliamo dai piedi e meglio è.