“Io ho smesso di suonare la chitarra su consiglio di Guido Elmi, perché se tutti avessimo suonato la chitarra, saremmo stati troppi. Io smetto e imparo a gestire il palco senza chitarra, cosa difficile.”
“Io ho smesso di suonare la chitarra su consiglio di Guido Elmi, perché se tutti avessimo suonato la chitarra, saremmo stati troppi. Io smetto e imparo a gestire il palco senza chitarra, cosa difficile.”
Come nasce una rockstar?
Fosse facile spiegarlo.
Pleonastico dire che non c’è una regoletta scritta, perché altrimenti ne avremmo pieno il mondo, di rockstar. Altrettanto pleonastico dire che se da una parte è necessario il talento e l’attitudine, unite a una buona dose di buona sorte e di “essere al posto giusto nel momento giusto”, la parte del leone la faccia la determinazione, il rigore, l’essere intenzionati a lasciare il segno.
“Perché la chitarra ti nasconde, ti protegge. Io non sapevo dove mettere le mani, non sapevo come muovermi, se ti muovi troppo, ti muovi poco.”
Vasco sul palco è uno spettacolo.
È lo spettacolo.
Il suo modo di muoversi, di abbracciare il microfono, come fosse il bastone con cui Mosè ha diviso il Mar Rosso, il suo modo di aprire le braccia, sono ormai tutti gesti entrati nella mitologia, liturgia laica di una messa rock che ha in qualche milione di spettatori i fedeli e nello stesso Vasco sia Dio che il Papa. Strana condizione per chi, a ben vedere, è sempre stato un anarchico refrattario alle gerarchie.
Esistono gesti evocativi, riconoscibili, riconducibili alla storia del rock. Inimitabili e al tempo stesso, talmente unici da essere come un marchio di fabbrica. Si pensi al modo di muovere disarticolatamente le braccia di Mick Jagger, a quello di ancheggiare di Celentano, al passo dell’anatra di Chuck Berry, la chitarra in avanti e le gambe accucciate, si pensi al ghigno di Billy Idol, alla mossa fatta con i capelli dai primi Beatles, o al modo tutto suo di abbracciarsi di Bono degli U2. Ecco, li vedi e sai già di chi stai parlando, ti richiamano alla mente una determinata musica, una determinata canzone.
Così è per Vasco.
Ma non è sempre stato così.
“Ho studiato da rockstar. Quando sono arrivato a Sanremo, col famoso microfono, avevo già esperienza, sapevo come fare. Sai, io sin da piccolo ero abituato. Mia madre mi metteva sul tavolo, mi faceva cantare per lei e le altre mamme. Una cosa che mi ha formato, ha creato una rockstar. Voleva una rockstar e l’ha avuta. Salvo poi imbarazzarsi, adesso, perché è troppo. Da sopra il tavolo a Modena Park. Me lo dice, ogni tanto. Me lo chiede: si è fatto male qualcuno? Per adesso no, ma siamo sempre sul crinale. Quando il microfono è volatsUo via, non mi sono girato. Perché sul palco devi essere sicuro. Se sei goffo trasmetti un messaggio che ti squalifica. Mick Jagger, a cui io guardavo, era sicuro di sé. C’era gente che bruciava la chitarra, un casino. Uno il riflesso condizionato di girarsi e raccogliere il microfono ce l’avrebbe, ma deve sapersi trattenere. Come quella volta che ad esempio che andando indietro sono andato contro le spie della batteria, le ho buttate indietro e mi sono detto adesso mi lancio e atterro sul camion che era dietro il palco. Invece ho preso male la figura e sono caduto nel vuoto, sono tornato sul palco tutto insanguinato e ho finito. Tutto dolorante, ma ho continuato. Un’altra volta ho cantato con due costole incrinate, con il medico a bordo palco che mi diceva di stare fermo, calmo. Ma erano concerti movimentati, non si poteva stare fermi. Toccava andare avanti. Sempre.”
Ecco, questo libro racconta di quando Vasco ha mollato per sempre la chitarra. Di quando Vasco ha studiato da rockstar, lui che rocker lo era già, per attitudine e suono. Di quando ha capito che doveva solo cantare, e che quindi ad accompagnarlo doveva essere una band, anzi, no, la band, la sua band.
Di come l’abbia messa su, un pezzo alla volta, fino a essere quella che oggi lo accompagna sul palco, inserendo un elemento alla volta, come un allenatore che vuole per sé i calciatori migliori, scegliendo la formazione che poi schiererà in campo.