di Federica Pastore
Il legame tra migrazioni e cambiamento climatico non è scontato né sempre evidente a prima vista, ma l’aumento degli eventi naturali estremi negli ultimi anni ha senza dubbio influito in modo consistente sul numero di persone che, a livello globale, sono state costrette ad emigrare: 24,2 milioni solo nel 2016. Le regioni maggiormente colpite sono il Sud e il Sud-est asiatico, ma i piccoli Stati insulari subiscono le conseguenze di tali eventi in modo molto sproporzionato se si tiene in considerazione l’ammontare della popolazione presente sui loro territori poiché – pur avendo una densità abitativa più bassa – la superficie disponibile è limitata e gli spostamenti all’interno di uno stesso stato rischiano di essere fonte di conflitti etnici tra le diverse comunità.
Quale futuro si prospetta quindi per gli abitanti delle isole del Pacifico? La risposta, in relazione agli effetti del cambiamento climatico, è complessa. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), politiche di adattamento ben progettate e piani di mobilità dei lavoratori potrebbero aumentare lo sviluppo e la resilienza delle zone particolarmente vulnerabili come le isole del Pacifico, contribuendo alla diminuzione di futuri spostamenti incontrollati e forzati delle popolazioni. “Espandere la mobilità dei lavoratori è vitale per il futuro della regione del Pacifico. Se gli Stati non riescono a garantire posti di lavoro alle persone, l’alternativa è portare le persone dove tali posti esistono”, dichiara la Banca mondiale nel report “Pacific possible: labour mobility”. Il report analizza le opportunità e le sfide che 11 stati del Pacifico (gli Stati federati della Micronesia, Fiji, Kiribati, le Isole Marshall, Palau, Papua Nuova Guinea, Samoa, Isole Salomone, Tonga, Tuvalu e Vanuatu) dovranno fronteggiare nei prossimi 25 anni in questo settore, proponendo una serie di riforme come strategie di adattamento climatico per la regione.
Australia e Nuova Zelanda dovrebbero innanzitutto approvare programmi di migrazione strutturati, facilitando la libera circolazione delle popolazioni colpite dagli effetti del cambiamento climatico. La Banca mondiale ha stimato che la regione del Pacifico, da sola, potrebbe ospitare più di 240mila abitanti provenienti dalle isole entro il 2040 e generare un reddito addizionale di 10 miliardi di dollari. Lo scopo non è svuotare gli Stati, ma renderli sostenibili dal punto di vista economico e ambientale, ottenendo vantaggi sia per i migranti sia per i Paesi ospitanti. In Australia e Nuova Zelanda, infatti, si prevede che l’offerta di lavoro interna non sarà sufficiente in settori quali l’agricoltura, la cura e l’assistenza agli anziani e il turismo, posizioni lavorative che potranno quindi essere ricoperte dai migranti.
Gli stessi governi delle isole, come Kiribati e Tuvalu, preferirebbero una migrazione più lenta e controllata per evitare che i loro cittadini possano essere trattati come rifugiati, in un quadro internazionale legislativo che in realtà non riconosce ancora questo status per coloro i quali sono costretti ad emigrare a causa del cambiamento climatico. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim o Iom) prevede che a livello globale ci saranno tra i 25 milioni e 1 miliardo di migranti ambientali entro il 2050, sia all’interno dei confini nazionali sia verso altri Paesi. Una situazione che sarà ingestibile se le parti coinvolte non collaboreranno fin da subito poiché, come sottolinea anche la Banca Mondiale nel suo report, “il peggioramento degli impatti del cambiamento climatico ha fornito un nuovo imperativo morale per garantire un accesso aperto”.