Riuso, raccolta delle acque reflue e piovane. Per risolvere il problema sarebbero necessari investimenti tra i 5 e i 10 miliardi e un arco temporale di un decennio. Eppure nonostante lo stesso ministero ammetta che le "anomalie idrologiche si sono registrate a partire dalla fine del 2016", non ha tentato nemmeno un coordinamento tra usi ed enti differenti. Così siamo di nuovo in stato di emergenza
Mentre a valle i campi sono a secco, la gente boccheggia per il caldo e i laghi non possono cedere un po’ d’acqua perché l’alta stagione è alle porte, a monte le centrali idroelettriche ne trattengono il più possibile: ci sono i condizionatori da tenere accesi, serve energia elettrica in abbondanza. L’Italia che in queste settimane soffoca e ha sete è in un vicolo cieco. Bloccata dall’inazione di chi, dal livello più alto a quello più basso, la governa e dovrebbe mettere in campo soluzioni perché non ci si ritrovi in una situazione del genere. Soprattutto se, come emerso da varie rilevazioni, le prime avvisaglie di un’altra siccità da segnare sul calendario si vedevano già in inverno. Perché non si è fatto niente? Perché nessuno si è posto il problema di evitare l’emergenza?
Servono misure strutturali
Il punto, spiega Alberto Bellini, docente dell’università di Bologna e autore del libro Ambiente clima e salute, è che “una situazione del genere può essere risolta solo con soluzioni strutturali che cambino il modo in cui l’acqua viene gestita e consumata”. Parliamo di irrigazione a goccia in tutte le coltivazioni agricole, una rete che separa le acque reflue scure da quelle chiare e consente quindi il recupero di queste ultime per usi agricoli e industriali, sistemi per recuperare le acque piovane. “Per mettere in campo queste misure serve un piano da 5-10 miliardi. Non si realizzano da un giorno all’altro, servono dai 5 ai 10 anni, ma la colpa di chi governa è non aver nemmeno cominciato”. Neanche quando, appunto, questo inverno le prime previsioni scientifiche dicevano che l’estate sarebbe stata torrida.
Consumiamo più acqua di quella disponibile
Così, per esempio, ora ci si ritrova con piani di emergenza che prevedono anche la potabilizzazione dell’acqua del fiume Po, in un quadro però ormai alterato dai cambiamenti climatici. “Il problema è che oggi il Po non ha acqua per questo, una condizione che il modello non considera. E nessuno ci pensa. In Italia mancano la consapevolezza del problema e la pianificazione”. Ma non sono gli unici mali di un Paese dove, spiega Andrea Agapito del Wwf, si consuma più acqua di quella realmente disponibile: “Basti pensare che nel bacino padano le concessioni per uso idroelettrico e agricolo ammontano a 1.840 metri cubi di acqua al secondo, contro una portata del fiume di 1.400. Il deficit è evidente: basta che non piova per un po’ perché il sistema vada in tilt”.
L’agricoltura prima vittima e responsabile
Le misure più urgenti sarebbero necessarie per efficientare l’uso di acqua in agricoltura e nell’allevamento. Oggi infatti, si legge in un rapporto del Wwf, queste attività sono responsabili di una quota compresa tra il 44% e il 60% dei consumi idrici totali italiani, seguite dall’industria (25-36%) e dagli usi domestici (15-20%). Produrre carne bovina ci costa oltre 250 metri cubi d’acqua all’anno pro capite, latte e grano poco meno di 250 metri cubi, olio d’oliva circa 200. Consumi che potrebbero essere resi più efficienti, per esempio, rendendo obbligatori il recupero delle acque piovane e l’irrigazione a goccia. “Ma intervenire in questi settori è molto difficile sia a livello economico e sociale, sia anche politico, anche se interventi di efficientamento andrebbero a favore delle imprese”, aggiunge Bellini. Mentre per trovare i soldi per altre opere servirebbe alzare le tariffe dell’acqua: “Oggi in Italia costa troppo poco, ed essendo un bene scarso avrebbe senso farla pagare di più. Purtroppo il tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici non scalda il cuore delle persone e i politici a caccia di consenso facile lo ignorano e non alzerebbero mai le tariffe”, riflette Marcello di Paola, esperto di cambiamenti climatici della Luiss.
Molte emergenze, zero coordinamento
Ad aggravare la situazione italiana è anche la mancanza di coordinamento tra i diversi usi e i diversi enti. “Il risultato è che i differenti utilizzi vanno in conflitto e per i fiumi che attraversano più regioni, per esempio, ognuno dalla sua parte fa quello che vuole. Ci si coordina solo quando c’è uno stato di emergenza: allora la Protezione civile può mettere tutti intorno a un tavolo e sospendere le concessioni, razionalizzando l’uso della risorsa idrica”. L’ufficio stampa del ministro Gian Luca Galletti ora fa sapere che “il ministero dell’Ambiente e le Autorità di bacino distrettuali sono in prima linea per affrontare e gestire nel migliore dei modi la carenza idrica su tutto il territorio nazionale” e che “gli Osservatori distrettuali permanenti sugli utilizzi idrici, istituiti nel luglio 2016, su iniziativa del ministero proprio per garantire la gestione ottimale dell’acqua, si stanno riunendo con cadenza settimanale, analizzando la situazione sui territori di competenza e provvedendo ad indicare le misure più idonee per fronteggiare le situazioni più critiche”. Ma visto che, come ammette lo stesso ministero, “le anomalie idrologiche e termiche si sono registrate a partire dalla fine del 2016 e per tutti i primi 5 mesi del 2017”, si fa un po’ fatica a comprendere perché, di fronte a segnali di una siccità così grave è diffusa, non si è fatto niente nei mesi scorsi per tentare almeno un coordinamento tra usi ed enti differenti. Senza dover aspettare l’ennesima dichiarazione dello stato di emergenza.