Volevamo dirle grazie, professore, per tutte le volte che ci ha fatto da bussola, che ci ha messi in guardia, che ci aiutati a capire. Lo facciamo noi solo perché, per mestiere, l’abbiamo tante volte disturbata in questi anni; ma le sue parole sono di tutti. Il valore della collettività, cioè la forza dell’essere una comunità che esiste perché si sta insieme, era uno dei suoi punti fermi. Per questo non ha mai fatto mancare la sua autorevole voce nelle battaglie importanti, quando qualche diritto era in pericolo, quando si profilavano all’orizzonte le prepotenze del potente di turno, quando – ed è accaduto tante volte – si tentava di scardinare la Costituzione. I beni comuni, quasi naturalmente, erano associati a Stefano Rodotà. La lezione più importante, nel discorso pubblico che ha portato avanti con costanza sui diritti, era questa: ricordava a ogni cittadino che poteva davvero pretendere i suoi diritti. Il lavoro, la casa, l’istruzione, la salute, l’amore. Per uno stato di diritto e dei diritti.

Di lei ci fidavamo, a lei ci saremmo affidati; anzi: le avremmo (in tantissimi) affidato volentieri la nostra Repubblica così acciaccata, sapendo che era nelle mani di un galantuomo, innamorato della Costituzione e fedele ai suoi principi. Mai li avrebbe traditi per qualche compromesso al ribasso, per accontentare qualcuno, per un interesse. Ed è questo ad aver creato una formidabile empatia tra una “riserva della Repubblica”, come si diceva una volta, e il popolo: per lei il popolo non era mai declinato nello spregiativo “-ismo”, era sempre – sempre – uno degli elementi costitutivi dello Stato. Non suddito, protagonista. Proveremo a onorare questa eredità.

Non bisognerebbe avere pensieri miseri in questi momenti, ma dobbiamo confessare che la livella della morte disturba: dopo, nel ricordo, tutto si annacqua e tutti diventano “grandi”; si dimenticano i torti. Non ci sono classifiche, per carità!, come direbbe lei, e il segno che Stefano Rodotà lascerà nella storia nel nostro Paese passa non solo dalle sue battaglie politiche, non solo da quella straordinaria possibilità non colta (quando poteva essere presidente della Camera e non è stato eletto nel ‘92, quando poteva diventare presidente della Repubblica e non gli è stato consentito, quattro anni fa). Ma anche dalla sua lungimirante intelligenza di studioso del diritto, che prima di tutti aveva capito quanto le tecnologie avrebbero influito nella vita delle persone, quanto avrebbero potuto essere una possibilità di crescita e insieme un pericolo su cui vigilare. Una volta, il Fatto emetteva i primi vagiti, ci chiamò per dire “Grazie per l’attenzione, però io non sono un costituzionalista”. C’era una didascalia sbagliata. Costituzionalista però lo era diventato, per meriti sul campo, anche se aveva sempre insegnato diritto civile.

Si dice “padri della patria” per indicare chi ha fatto da guida. Salutando Stefano Rodotà, dobbiamo dire addio a un padre, a cui tutti dobbiamo qualcosa. E non è mai una questione semplice perché si sente il vuoto, perché quando manca un riferimento a cui chiedere consiglio, da interpellare nei momenti cruciali, ci si sente spaesati e più soli. Quando Rodotà prendeva una posizione aveva un peso. E’ quel peso, la sua autorevolezza, che mancherà terribilmente. Non sarà facile colmare il vuoto, e non è retorica, non è piaggeria, non è nemmeno il dolore che, pur non essendo familiari, si può provare senza vergogna. Sottovoce torniamo a dire una parola semplice e che può essere condivisa da tanti: grazie, professore. Le abbiamo voluto tanto bene.

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