Poi però ha scelto Giurisprudenza.
“Mi domando ancora oggi perché. Gli unici due zii che avevano studiato Legge si erano laureati ma poi avevano fatto altro. M’interessava il rapporto con la realtà, come si organizza lo Stato. Mi sono convertito al Diritto privato per Alberto Asquini, le cui lezioni di Diritto commerciale erano apparentemente noiosissime, ma dimostravano dall’interno come funzionava il meccanismo del diritto. Poi mi sono laureato con Emilio Betti, un grandissimo giurista: uomo severissimo e rigorosissimo. C’è un paradosso, perché entrambi erano stati molto legati al fascismo: Asquini era stato addirittura sottosegretario. Betti si era esposto durante la Repubblica di Salò, con articoli sul Corriere della Sera in cui giustificava le esecuzioni dei partigiani con argomentazioni giuridiche e formali. Lui era marchigiano, nei giorni della Liberazione, a Giuseppe Ferri – partigiano e docente di Diritto commerciale – dicono: ‘Hanno preso un professore’. Ferri capisce subito che si tratta di Betti, si precipita dal comandante della brigata partigiana e gli dice: ‘Ma è un professore, lasciamolo perdere’. Quello gli dice: ‘Il tuo professore ha scritto cose gravissime, adesso lo fuciliamo’. Vanno a parlargli. E Betti ripete le sue tesi, parola per parola. Alla fine questo contadino comandante partigiano dice a Ferri: ‘Il professore non ci sta con la testa, portatelo via’.
La mia vicenda accademica è stata poi segnata dall’incontro con Rosario Nicolò, uomo generoso e aperto all’innovazione culturale. Cos’era Roma per un ragazzo che arrivava dalla Calabria negli anni Cinquanta? Per me era la Biblioteca nazionale, era andare al cinema. Precisamente al Circolo del cinema Charlie Chaplin, che era quello di sinistra i cui spettacoli si tenevano la domenica mattina al cinema Rialto in via IV Novembre: tu andavi lì e incontravi Moravia e Pasolini. A Roma c’era un’infinità di cose da fare, da vedere. Sono partito da Cosenza con una certa premeditazione. Non volevo tornare. Poi c’è stato l’incontro con la politica: al terzo anno, non avevo ancora compiuto ventun’anni, scopro che esiste l’Ugi, l’Unione goliardica italiana. M’incuriosiva. Allora l’Ugi si trovava a metà di via del Tritone, in un palazzetto dove c’era la sede dell’Associazione italiana per la libertà della cultura presieduta da Ignazio Silone. Arrivo e in fondo alla sala si alza un tipo, piccolino, e mi viene incontro: era Tullio De Mauro. Così entro in questo giro e chi conosco, tra i primi? Marco Pannella. Comincio a frequentare l’Ugi, che nel frattempo si dota di una giunta, presieduta da un cattolico, e io divento vicepresidente degli organismi rappresentativi, cioè del parlamentino. C’erano anche fondi a disposizione: insomma era un piccolo partito universitario. Presiedo l’Unione goliardica romana, quando Togliatti decide di sciogliere l’organizzazione universitaria comunista e di far confluire gli iscritti nell’Ugi, che era molto laica. All’interno dell’Ugi c’erano molte resistenze ad accogliere i comunisti. Ed è proprio l’associazione romana a fare da cavia, per vedere come vengono accolte le domande dei comunisti. I primi ad arrivare sono due ragazzi che si chiamano Alberto ed Enzo. Di cognome Asor Rosa e Siciliano. Marco Pannella invece era liberale, ma a me non interessava. A quel mondo mi sono avvicinato, perché m’interessava molto Ugo La Malfa, che ho conosciuto bene nonostante la differenza d’età. Era un vero politico, di straordinaria vivacità. In realtà nemmeno il Partito repubblicano m’interessava. Però il Partito radicale sì.