Ci arrivai attraverso Il Mondo. Marco mi dice: ‘Raimondo Craveri fa una rivista, Lo spettatore italiano, andiamo a trovarlo’. E così andiamo in questa casa bellissima di piazza Santi Apostoli. Lì conosco Elena Croce, figlia di Benedetto e moglie di Craveri: una donna intelligentissima, spiritosa, interessatissima ai giovani. Elena un giorno annuncia a me e Tullio: ‘Voglio presentarvi Pannunzio‘. Così andiamo in via di Campo Marzio dove c’era la sede del giornale. Pannunzio era circondato da una fama di grande intransigenza: aveva fatto riscrivere l’articolo sui fratelli Cervi a Einaudi, presidente della Repubblica. Non concedeva niente a nessuno. A un certo punto dell’incontro ci dice: ‘Pensate a farmi qualche proposta’. Avevo ventitré anni. Il Mondo per noi allora era una passione quasi morbosa, avevamo un’adorazione per questa impresa straordinaria. Tanto che andavamo alla stazione, la notte prima dell’uscita del giornale, a comprare le copie appena arrivate in edicola.
E fece qualche proposta a Pannunzio?
Certo! Scrivo subito un articolo sulla mia facoltà, e lo porto in redazione. Due settimane dopo compro Il Mondo e in prima pagina di spalla c’è il mio articolo. Titolo: “L’ideale dei mediocri“. Sono quasi svenuto! A questo punto sono stato ammesso in quel circolo. Non ho scritto tanti articoli, ma moltissimi taccuini, cioè i commenti anonimi ai fatti della settimana che stavano nella seconda pagina. Una cosa che per me era motivo di orgoglio assoluto.
E Silone che tipo era?
Una persona scostante e molto antipatica. A un certo punto lui non voleva noi ragazzi tra i piedi. E allora dovemmo cercare un’altra sede. C’era il Centro culturale di Comunità, voluto da Adriano Olivetti anche a Roma, in via di Porta Pinciana 6, dove si trasferì l’Ugi e dove io passai veramente un pezzo della mia vita: ci andavo tutte le sere. E ogni tanto faceva una visita Olivetti che mi prese in grandissima simpatia. Facevamo lunghissime chiacchierate. Qualche volta passava Guglielmo Negri, che dirigeva il Centro di Comunità. E diceva: “Ingegnere, non si faccia incantare da Rodotà. Guardi che qui all’Ugi ogni tanto i libri se li rubano!” E lui: “Li rubano? Ma allora vuol dire che li leggono”. Aveva un po’ ragione e un po’ no: eravamo tutti senza una lira e qualcuno se li rivendeva pure. Un anno dopo la laurea, vado in Inghilterra. È il 1957. Mi arriva una lettera di mio padre che mi dice: “Caro Stefano, ha telefonato l’ingegner Adriano Olivetti. Dice che se vai alla Barclays Bank di Londra c’è una cosa per te”. In banca c’erano trecentomila lire, un regalo per una persona che lui stimava. Al mio ritorno, Olivetti m’invita a Ivrea. Parto da Roma e viaggio tutta la notte. Arrivo a Ivrea in una giornata di novembre gelida, nebbiosa. Non era certo Ivrea la bella di Gozzano! A ricevermi c’è Ottiero Ottieri, che poi avrebbe raccontato questa sua esperienza di reclutatore in Donnarumma all’assalto. Ottieri invece di invogliarmi, mi fa un discorso sulla tristezza dell’intellettuale chiuso a Ivrea. Alla fine dissi no, anche se l’offerta economica era molto generosa. Avevo deciso che quello che mi piaceva fare era studiare. Ero già assistente, non avevo un incarico fisso, ma allora la carriera universitaria era scandita dai tempi e uno si poteva programmare la vita, non certo come adesso. Ho avuto la fortuna di poter fare quel che più mi piaceva, in primo luogo nella ricerca e nell’insegnamento, con un progetto di reintegrare il diritto in un più largo contesto culturale che mi sono poi portato in giro per il mondo.