Genova per loro di Roma. I risultati complessivi del capoluogo ligure, tra primo e secondo turno, sono lo specchio perfetto di queste elezioni amministrative, in cui si riflettono cinque tendenze generali di fondo: due di sistema e tre legate alle forze politiche.
1) Ormai l’astensionismo è diventata la vera emergenza democratica di questo Paese. Un Paese dove fino a qualche decennio fa si registrava la più alta percentuale europea di partecipazione al voto, tra il 70 e l’80 per cento, soprattutto alle Amministrative. A Genova, dunque, su 491.167 iscritti alle liste elettorali ha votato il 48,39 per cento (237.679 elettori) al primo turno del 12 giugno. Domenica 25 un altro vistoso calo: 209. 595 pari al 42,67 per cento degli aventi diritto. Quella del centrodestra è una vittoria dimezzata in numeri assoluti: coi voti del ballottaggio, 112.398, Bucci rappresenta poco più un quinto della città. A Genova si conferma una drammatica tendenza del quadro di sistema. La sfiducia, la rabbia, la vendetta dei cittadini rischiano di incanalarsi sempre più nella diserzione delle urne.
2) Il bipolarismo non è tornato. Anzi, il sistema è sempre più tripolare alla luce dei sondaggi nazionali di domenica scorsa: M5s al 28 per cento, Pd al 26, centrodestra unito al 33 (14 Lega, 14 Forza Italia e 5 Fratelli d’Italia). Semmai, rispetto all’anno scorso, quello delle amministrative di Roma e Torino, il Pd aumenta la sua fragilità elettorale in un sistema maggioritario come quello del ballottaggio: sconfitto nel 2016 dai grillini, sconfitto nel 2017 dal centrodestra che conquista i due terzi dei 25 comuni principali di questo turno. Non solo. I dati di Genova snudano la favola del bipolarismo risorto: al primo turno, quando a competere sono state le liste di sostegno ai candidati sindaci, il bipolarismo tradizionale centrodestra-centrosinistra ha superato di poco il 60 per cento, con più della metà degli aventi diritto rimasti a casa. E’ la percentuale più bassa in venticinque anni di Seconda Repubblica.
3) Fin qui le due tendenze di sistema. Per quanto riguarda i dati legati alla forze politiche, si conferma l’immagine perdente del Pd di Matteo Renzi. Per il segretario del Pd è la quarta pesante sconfitta nelle urne: Regionali del 2015, Amministrative del 2016, Referendum del 4 dicembre 2016, Amministrative di quest’anno. In realtà, il ciclo di Renzi e del suo giglio magico (Lotti e Boschi in primis) si è chiuso con la catastrofe referendaria. Venti milioni di no avrebbero consigliato un definitivo ritiro. Al contrario, il leader del Pd ha imprigionato il suo partito nella sindrome Hamon, il socialista francese che ha vinto le primarie con due milioni di voti e poi è naufragato alle presidenziali. Il Pd non alcuna capacità espansiva o attrattiva: in due anni ha perso Roma, Torino e Genova. Il suo unico orizzonte sono le scontate larghe intese con Berlusconi. In questo schema Renzi rappresenta il tappo per ogni ricomposizione del centrosinistra. Non è questione di rancori personali, come pontifica Prodi. Ma di risultati, scandali e fallimenti di governo. Chi tocca Renzi muore, elettoralmente parlando.
4) Il centrodestra ha vinto ma il suo padrone è Matteo Salvini, non Silvio Berlusconi. E’ la lezione del modello Genova o dell’intero modello Liguria. Lì, il governatore Giovanni Toti, in aperta rottura con la casa madre di Arcore, è il fautore di un’unità totale tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Berlusconi, invece, continua a non volere eredi e nonostante la vittoria non vuol sentire parlare di maggioritario e premio di coalizione. La strategia dell’ex Cavaliere, al momento, è di tenersi le mani libere con un sistema proporzionale. Non a caso il suo nemico sono i grillini, ma non Renzi e il Pd con cui non esclude le larghe intese. I numeri di Genova, infine, la dicono lunga sui rapporti di forza nel centrodestra: Lega al 12,95 per cento, Forza Italia all’8 per cento (un dato che fotografa la percentuale complessiva degli azzurri in queste amministrative). Le cose migliorano coi sondaggi nazionali ma per la prima volta Forza Italia non è il perno del centrodestra.
5) L’enigma del Movimento 5 Stelle. La gestione e i risultati del caso Genova, laddove è nato e vive il fondatore Beppe Grillo, segnano se non altro una fase di stagnazione del Movimento. I grillini scontano vari fattori negativi: la giunta Raggi a Roma, il profilo confusionario dell’aspirante premier Luigi Di Maio (ma come si fa a paragonare Berlinguer ad Almirante?), la tragica mancanza di una classe dirigente. Lacuna, quest’ultima, resa ancora più evidente dal trionfo del ribelle Pizzarotti a Parma. Per il momento restano comunque alti nei sondaggi, ma qualora dovesse confermarsi il loro trend calante, i delusi aumenterebbero la schiera degli astensionisti. Sempre che a sinistra non nasca una forza competitiva come quella augurata da Falcone e Montanari.