La Corte d'assise di Taranto ha respinto l'accordo tra la procura e i commissari del siderurgico e di Riva Forni Elettrici. Tra le accuse c'è infatti l’avvelenamento di sostanze alimentari: per questa ipotesi di reato è prevista in caso di condanna una pena minima di 15 anni di carcere
Un pena troppo bassa rispetto alla gravità delle accuse. È sostanzialmente questa la motivazione con la quale la Corte d’assise di Taranto ha rigettato la richiesta di patteggiamento presentata dall’Ilva in amministrazione straordinaria e dalla società Riva Forni Elettrici. Un ”no” secco che ora riporterà nuovamente le società sotto processo: una batosta anche per la procura ionica che aveva dato il suo ok alla richiesta di patteggiamento.
“A giudizio di questa Corte – ha scritto nel provvedimento la corte d’assise, presieduta dal giudice Giuseppe Licci e a latere Elvia Di Roma – le pene concordate con i rappresentati della pubblica accusa” sono “sommamente inadeguate e affatto rispondenti a doverosi canoni di proporzionalità rispetto alla estrema gravità dei fatti oggetto di contestazione”. Nelle tre pagine che compongono l’ordinanza di rigetto, infatti, i magistrati hanno spiegato che la legge associa la possibilità per le società di patteggiare la pena ai reati contestati ai suoi dirigenti finiti sotto processo ed evidenziando che “l’accesso al rito speciale” è circoscritto “alle ipotesi di illecito meno gravi, e cioè quelle per le quali sia prevista l’applicazione della sola sanzione pecuniaria”.
Una fattispecie che non riguarderebbe la vicenda penale in cui sono coinvolti gli ex proprietari e dirigenti dell’Ilva e di Riva Forni Elettrici accusati di reati gravissimi come l’avvelenamento di sostanze alimentari: per questa ipotesi di reato, infatti, è prevista in caso di condanna una pena minima di 15 anni di carcere. A questo, inoltre, i giudici hanno aggiunto che il procedimento penale “Ambiente svenduto” è “tutt’altro che definito nelle forme del patteggiamento” visto che è “attualmente in corso” ed è “appena incominciata la fase dell’istruzione dibattimentale con l’assunzione delle prove orali” e che in ogni caso non potrà concludersi con un patteggiamento per gli imputati.
Ilva e Riva Forni Elettrici, quindi, dovranno tornare dinanzi alla stessa Corte d’assise che sta celebrando il maxi processo nei confronti di oltre 40 imputati, ma questo “non interferisce con la procedura di trasferimento degli asset aziendali” hanno precisato all’Ansa fonti dell’azienda in amministrazione straordinaria sottolineando che nessuna interferenza ci sarà per l’utilizzo del tesoro dei Riva di 1,3 miliardi di euro per l’ambientalizzazione degli impianti della fabbrica del capoluogo ionico. Da fonti vicine ai commissari Gnudi, Laghi e Carrubba, inoltre, è giunta la replica: “Il provvedimento potrebbe essere viziato da abnormità” e “si sta valutando il ricorso per Cassazione”.
Non è bastato quindi a Ilva alzare l’offerta per patteggiare: già in fase di una udienza preliminare la richiesta era stata bocciata dalla procura ionica, guidata allora da Franco Sebastio. I legali dell’Ilva avevano così fatto lievitare la proposta ottenendo l’ok della procura, guidata ora da Carlo Maria Capristo, ma non della Corte d’assise. Ilva aveva messo sul piatto il pagamento di una sanzione pecuniaria di 3 milioni di euro, 8 mesi di commissariamento giudiziale e 241 milioni di euro di confisca (invece dei 9 proposti nella prima istanza) quale profitto del reato da destinare alla bonifica dello stabilimento siderurgico di Taranto.
La decisione, infine, è un nuovo schiaffo al Governo e la vicenda Ilva si conferma la spina nel fianco degli esecutivi che dal 2012 a oggi a colpi di decreti hanno provato a risolvere la vicenda del disastro ambientale e sanitario di Taranto: l’ultimo annuncio trionfale, in ordine di tempo, era giunto proprio da Matteo Renzi durante l’ultima diretta #matteorisponde prima del Referendum costituzionale del 4 dicembre.