L'avamposto locale della sanità pubblica è un pilastro della politica. Mentre gli scandali si moltiplicano, il governo vara una riforma a metà sulle nomine dei dirigenti che restano in mano ai governatori. La regionalizzazione ha ancora senso? Non del tutto, è la risposta degli esperti, ma non si può tornare indietro. E i motivi sono tanti
Togliere la sanità alle Regioni non salverà la sanità. Cattiva gestione, clientelismo, riforme a metà. I mali sanitari della Penisola sono gli stessi del Belpaese e affossano i bilanci delle Regioni che si rifanno sulle tasche dei cittadini in una spirale sempre più negativa. Mai come ora è stata forte la spinta riaccentratrice che piace anche al ministro della Salute. Beatrice Lorenzin, come molti altri, pensa che la soluzione sia strappare Asl e ospedali dalle mani delle Regioni e centralizzare il sistema. Tutto da dimostrare, però, che cambiare la catena di comando sia sufficiente di per sé a eradicare le più consolidate usanze del Paese. Ma soprattutto che Roma sia in grado di gestire la macchina della salute italica.
Il buco delle Asl tra erogazione di cure…e poltrone – La sanità affossa i conti di metà Regioni italiane. Da anni ormai Campania, Piemonte, Liguria, Lazio, Calabria, Puglia, Molise, Sicilia e Sardegna sono in deficit in un settore che rappresenta fra il 60 e l’80% delle uscite dell’ente. In Campania, in mancanza di tutti i bilanci chiusi di Asl e aziende ospedaliere, si fa persino fatica a “ritenersi solida la situazione economica dei conti della regione”, come riferisce il tavolo tecnico locale alla Corte dei Conti nella delibera del 6 aprile scorso. La situazione non è diversa in Toscana che due anni fa è finita in profondo rosso (3,5 miliardi di disavanzo nel 2015) appesantita dalla sanità (72,20 milioni di perdite) che ha richiesto la creazione di un fondo ad hoc (659 milioni) per pagare velocemente i fornitori. Senza contare il buco da 200 milioni a Massa Carrara che ha messo in forti difficoltà il governatore Enrico Rossi.
Ma come si è potuti arrivare a questo punto? Dall’inizio del decentramento negli anni ‘90, la politica nazionale e quella locale hanno trasformato la sanità in un feudo inespugnabile simile a quello delle partecipate degli enti locali. Un sistema di potere che non solo ha a disposizione enormi risorse trasferite dallo Stato (113 miliardi per il 2017) o incassate via ticket (2,8 miliardi nel 2015), ma gestisce in prima persona la sanità. Innanzitutto attraverso le nomine dei vertici di Asl e Aziende ospedaliere che non sfuggono comunque anche ai giochi di potere nazionali, come dimostra l’interesse dell’ex ministro Nunzia De Girolamo per le nomine dell’Asl di Benevento, sua città d’origine. E poi anche quelle di medici, infermieri e amministrativi in un sistema estremamente lottizzato e scarsamente aperto al merito.
Le cifre in gioco sono del resto da capogiro: solo in Campania, ad esempio, la spesa sanitaria sfiora i 12 miliardi, il 67% del bilancio regionale. I dipendenti sono oltre 46mila, l’equivalente di una città come Frosinone e non lontano da una come Avellino (circa 54mila abitanti). Situazione analoga in Toscana dove la sanità pubblica impiega circa 36mila persone. Sono numeri che, su scala nazionale, mettono insieme un piccolo esercito con circa 626mila dipendenti di Asl e aziende ospedaliere, pari a un quinto dell’intero apparato di dipendenti statali (3,2 milioni). Sono medici (appena il 23%), infermieri (58%) e tanti amministrativi. Non è un caso, del resto, che la Corte dei Conti nel giudizio 2016 sull’Estar, la centrale unica di acquisti della Regione Toscana, abbia fatto pesare all’ente il sovradimensionamento della struttura: 963 dipendenti, quasi uno per ogni procedura d’acquisto (1.033) con “elevati costi di gestione” e “duplicazioni di procedure, per esempio nel settore delle gestioni degli immobili”.