Ci voleva un decreto per regalare al porto di Trieste il sogno di poter competere con i giganti del nord, da Rotterdam ad Amburgo. Avrebbero dovuto scriverlo la bellezza di 23 anni fa quel decreto, ai tempi della prima riforma portuale del 1994, in modo da consentire fin da allora allo scalo giuliano di potersi fregiare a tutti gli effetti, formali ed economici, della qualifica di porto franco internazionale. Non lo fecero, forse se ne dimenticarono, forse avevano altro di più importante a cui pensare. Quel decreto è stato finalmente emanato e porta tre firme: quella del ministro delle Infrastrutture e Trasporti Graziano Delrio, del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e del presidente dell’Autorità portuale Zeno D’Agostino.

Per Trieste quel documento, atteso fin dal memorandum di Londra del 1954, è come l’ingaggio di una scommessa. Con la dichiarazione del porto franco internazionale lo scalo marittimo del Nordest ha parecchie armi in più per poter tener testa agli imponenti ed efficienti scali del nord Europa. Prima tra tutte l’arma fiscale: porto franco significa che chi importa ed esporta a Trieste avrà 60 giorni di tempo per pagare tutte le imposte che devono essere pagate alla Dogana, a cominciare dall’Iva. Negli altri porti d’Italia quelle somme devono essere invece pagate in anticipo, mentre a Rotterdam tra le varie facilitazione propagandate con gli operatori marittimi c’è la possibilità di rimandare il pagamento per un mese, la metà di ciò che viene ora concesso a Trieste. Il vantaggio per il porto italiano è evidente. Facendo leva su questo punto il presidente D’Agostino che è anche presidente di Assoporti, delinea al fattoquotidiano.it un futuro di nuova industrializzazione per la città giuliana.

Il ragionamento è questo: se è vantaggioso fare arrivare le merci da Trieste, è logico pensare che le aziende italiane e straniere possano trovare conveniente organizzare intorno al porto anche l’assemblaggio o la trasformazione di quelle stesse merci facendo sorgere nuove aziende sulle enormi aree della zona franca, con tutti i vantaggi che essa comporta. Non ultimo l’azzeramento delle pratiche burocratiche dovendo avere gli operatori a Trieste come unico punto di riferimento l’Autorità portuale a differenza degli altri porti dove gli interlocutori sono tanti e frammentati. Una volta trattate, le merci verrebbero infine esportate verso mezza Europa del nord e dell’est. Il discorso vale soprattutto se di mezzo ci sono prodotti ad alto valore a cui ne verrebbe aggiunto altro nelle lavorazioni che dovrebbero sorgere intorno al porto giuliano. Ma vale molto meno se invece si tratta di merci di poco valore, tipo, per fare un esempio, le magliette o le scarpe che vengono dalla Cina.

Trieste è uno dei pochi porti italiani con un pescaggio fino a 18 metri e dalle sue banchine già oggi partono 170 treni merci a settimana verso quelle aree e nazioni che fino a un secolo fa facevano parte dell’Impero Asburgico e più a est più verso il Medio Oriente: due treni al giorno per Budapest, 2 per la Slovacchia, 4 per Monaco, altri 4 per la Repubblica Ceca, e poi per Vienna, Strasburgo, Colonia. Inoltre tre navi al giorno fanno la spola con la Turchia considerata la porta dell’Iran e quindi del petrolio iraniano e in particolare delle plastiche che dal petrolio si ottengono. D’Agostino sta già provando a dare corpo al sogno della reindustrializzazione di Trieste intorno alle banchine e ha avviato trattative con diversi soggetti italiani e stranieri che a suo dire guardano con estremo interesse al porto franco.

I grandi scali europei, in testa quelli del nord, non sono ovviamente contenti della piega presa a Trieste e vorrebbero fare a meno di misurarne la forza concorrenziale. Ma non possono fare molto per opporsi. E’ il decreto approvato di recente a impedirlo. E’ una storia lunga, che ha le radici addirittura nel 1719 con Carlo VI d’Asburgo che fa per la prima volta di Trieste una zona franca. La svolta arriva con la Seconda guerra mondiale: nel 1947 il Trattato di pace riconosce a Trieste i vantaggi economici e fiscali che però restano come sospesi perché Trieste non è ancora Italia. Ci vorranno altri 7 anni perché lo diventi e con il memorandum di Londra gli verranno confermate le prerogative del porto franco. Quando nel 1957 l’Italia entra nel primo embrione di quella che molti anni dopo sarebbe diventata l’Unione Europea, lo fa portandosi dietro i termini dei trattati internazionali siglati fino a quel momento. Tra questi c’è la condizione speciale di Trieste a cui l’Europa riconosce la qualifica di porto franco. Ci sono voluti 70 anni per incardinare su basi formalmente certe quell’importante riconoscimento. Ora l’incardinamento c’è.

Modificato da redazioneweb alle 12:35 del 30 giugno

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti

Scippo di Stato

di Daniele Martini 12€ Acquista
Articolo Precedente

Sole 24 Ore, via libera all’aumento di capitale ma Confindustria mette ‘solo’ 30 milioni. E cerca nuovi investitori

next
Articolo Successivo

Sanità, il buco nero di Asl e Regioni. “Ma riaccentrare tutto non ci salverà: Roma non è in grado”

next