Non c’era bisogno di conferme ulteriori, perché quarant’anni di carriera sulla cresta dell’onda hanno già dimostrato tutto. Ma gli ultimi San Tommaso in circolazione, ieri sera hanno potuto assistere in diretta su RaiUno alla rappresentazione plastica di cosa vuol dire essere una grande rockstar e, cosa ancora più difficile, cosa vuol dire esserlo in Italia, un Paese ricco di tradizione musicale ma che non ha certo alta concentrazione di rock nel dna.
Vasco Rossi è l’unica vera rockstar italiana. L’unico che ha coniugato la tradizione rock con le suggestioni cantautorale italiche. E lo ha fatto con un approccio glocal: il grande rock internazionale e la rustica visceralità emliana. Nessuno, forse escludendo i grandissimi Mina e Lucio Battisti, ha collezionato tante hit note a tutti, ha permeato con la propria musica quattro decenni di cultura musicale nazionale.
E il concerto di sabato sera al Modena Park ha riaffermato quello che si sapeva già. Record di presenze a parte (grasso che cola, nell’epoca dei sold out annunciati con troppa disinvoltura), il punto è la presenza scenica, è la capacità impareggiabile di interpretare, di raccontare storie ed emozioni sintonizzandosi perfettamente sulla frequenza di centinaia di migliaia di persone, potendo contare su testi di una qualità senza tempo, senza mai diventare banali. C’è l’amore, c’è la vita, c’è soprattutto la battaglia quotidiana dell’individuo di fronte al mondo. Temi raccontati in parole e musica praticamente da tutti, in giro per il mondo, e cadere nei versi facili, telefonati, è un rischio evidente. Ecco, Vasco Rossi lo ha sempre scansato con baldanzosa nonchalance.
È sempre riuscito a raccontare sentimenti semplici con testi credibili ma mai prevedibili. E se non è questo un talento ineguagliabile, cosa diavolo lo è?
I quarant’anni di Vasco Rossi sono stati quarant’anni di quotidianità italiana. Il suo rock ha narrato le vicende umanissime di tre generazioni e la cosa incredibile è che continua a farlo, mantenendo una attualità rara. La musica dei giorni nostri è un’industria dell’hic et nunc, con hit che durano il tempo di una stagione, fanno cassa più che possono in quest’epoca di vacche rachitiche, e poi spariscono (giustamente e prevedibilmente) nell’oblio.
Vasco Rossi no. Vasco Rossi è rimasto e rimarrà. E non è una cosa frequente, anzi lo è così poco che non siamo nemmeno abituati alla musica che resta nella storia, nel patrimonio culturale di una comunità. È una spanna sopra chiunque, questa è la verità. E anche le faide create a tavolino, giocando ai Beatles contro i Rolling Stones, non reggono, non stanno in piedi. Nessuno, nel panorama del rock italiano, può anche solo lontanamente pensare di confrontarsi con la perfezione del fenomeno Vasco Rossi.
Nessuno è credibile come lui, nessuno racconta emozioni esponendo le viscere al proprio pubblico, in quello che da concerto si trasforma in seduta collettiva, di analisi dell’ottimismo disperato di chi lotta, perde, cade, si rialza. E magari alla fine perderà di nuovo, ma senza mai cedere di un passo. Vasco Rossi è individualità anarchica, è inno alla libertà di fare e di sbagliare, di sbagliare di nuovo, di sbattere la testa al muro mille volte, con caparbietà e passione. È musica e sudore, è poesia e merda insieme. È vita, banalmente. E scusate se è poco.