Non è mai stato un battutista facile, ma un critico colto e cattivissimo fino al cinismo sadico della pancia di una nazione insoddisfatta e frustrata. Probabilmente oggi non sarebbe più possibile arrivare a tale perfezione narrativa e comica, visto che un Fantozzi dei giorni nostri potrebbe sfogare le frustrazioni sui social, trasformando il fallimento in invidia sociale vomitata in un tweet, eppure l'attualità di quel personaggio resta intatta
I comici efficaci, gente che fa più o meno ridere, non sono poi così rari. Ci si accontenta, spesso, di una risata facile, di battute telefonate che facciano leva sulla pancia dello spettatore. Praticamente l’opposto di quanto ha fatto Paolo Villaggio nella sua carriera. Attraverso Fantozzi, innanzitutto, maschera irresistibile ma dolorosissima di un signor Travet alle prese con gli schiaffoni e le umiliazioni della vita, affrontate con rassegnato fatalismo. Non c’è mai lieto fine, perché le disavventure del ragionier Ugo Fantozzi, impiegato vessato dell’Ufficio Sinistri, si susseguono una dietro l’altra senza soluzione di continuità.
E le risate che queste vicende di misera umanità hanno provocato nello spettatore (e prima ancora nel lettore, visto che i libri su Fantozzi contengono pagine di ottima letteratura umoristica) non sono mai risate fini a se stesse, ma frutto di una spietata critica sociale e morale, di una descrizione efficace all’insegna di un realismo grottesco solo all’apparenza contraddittorio.
Paolo Villaggio, genio puro, irregolare, umorale e spigoloso, forse è rimasto imprigionato nel suo personaggio più noto anche al di là delle sue stesse intenzioni, ma era inevitabile, tanto era perfetto e riuscito, tristemente irresistibile, aderente a una realtà, quella del ceto impiegatizio nell’Italia spietata degli anni Settanta, che ci coinvolgeva tutti, che raccontava un Paese impotente, disarmato di fronte ai soprusi di una società ingiusta. Inevitabilmente ingiusta.
Era il pessimismo di Paolo Villaggio, un pessimismo senza via d’uscita. Una presa d’atto di una condizione immutabile di disagio umano e sociale. La nuvoletta di Fantozzi era e rimane la nuvoletta di tutti noi, diventata proverbiale, la trasposizione umoristica di un’alienazione quasi marxista, solo apparentemente edulcorata da una italianissima sfiga, un fatalismo tutto italico che contestualizza in maniera accessibile a tutti una impostazione ideologica ben precisa.
Le intuizioni comiche del ciclo di film di Fantozzi (veri e propri capolavori i primi, decisamente più trascurabili gli ultimi) sono diventate parte di un patrimonio culturale condiviso, citazioni buone per ogni tipo di evenienza, ma soprattutto hanno rappresentato plasticamente i vizi e le miserie umane degli italiani. Il servilismo e il leccaculismo connaturato a un Paese che ha sempre mirato a sfangarla arrangiandosi, l’ingiustizia e l’immobilità sociale che soprattutto negli stagnanti anni Settanta avevano contribuito a far saltare il tappo del contratto sociale, la routine estraniante (anche negli affetti) che ci fa sopravvivere, quando siamo fortunati, ma mai vivere appieno.