Cultura

Teatro a Corte 2017, in scena le due anime di Torino: una aristocratica, l’altra popolare

TORINO – “Un altro giorno un’altra ora ed un momento, dentro l’aria sporca il tuo sorriso controvento, il cielo su Torino sembra muoversi al tuo fianco” (Subsonica)

Beppe Navello ha dolorosamente detto basta. Il direttore del Teatro Astra non si ricandiderà alla guida dell’attenta struttura torinese. La scelta ricadrà anche, anche a causa di nuovi paventati tagli, sul festival Teatro a Corte, da lui ideato, che apre le regge sabaude con i loro specchi e stucchi, altezze reali e parchi di caccia, stanze dorate, mobilie in avorio ed ebano, intarsi e arabeschi. Torino ha un’anima aristocratica e una popolare, Savoia e San Salvario, Palazzo Madama e i Murazzi. Fiat-Juventus e cuore granata. La città di Giuseppe Culicchia e Guido Catalano, Baricco e Gozzano, Subsonica e Africa Unite, Valeria Bruni Tedeschi e Flavio Bucci, Fred Buscaglione e Frankie Hi Ngr. Torino fa rima con Superga.

Novità di quella che si presume sia l’ultima edizione è il frazionamento in tre trance: la prima, tra Venaria Reale, Agliè e Stupinigi, tra fine giugno e inizio luglio; la seconda si terrà il 7 e 8 ottobre, e quella conclusiva del 16 e 17 dicembre. La formula funziona nonostante dieci anni fa il budget fosse di oltre due milioni di euro e oggi è ridotto ad un quarto: 500mila euro. Il pubblico risponde sempre in massa. Gli spettacoli oscillano da un minimalismo a immense strutture. Quest’anno è dedicato al Focus Francia.

La maestosità di grandi strutture aeree, da alzare il naso al cielo e aprire la bocca per lo stupore, è l’anima di Mu dei Transe Express, dove il pomposo prende il sopravvento in un impianto di macchinerie, celestiali e infernali. Un mix visivo, sonoro e cromatico d’ensemble tra un Luna Park futuristico, Cape Canaveral, un sontuoso musical di Broadway, un concerto di James Brown, il Cirque du Soleil e la Fura dels Baus.

Appesa ad una gru alta decine di metri, una sorta di mela fiammeggiante, un grande carciofo viola e rosa, un bozzolo inquietante (ricorda quelli della pellicola Cocoon) che magicamente si apre lasciando nella parte superiore, sospesi con le gambe nel vuoto, i musicisti, mentre una lady, tra Mary Poppins e Jane nelle mani di Kong, volteggia. Questo immenso cavolfiore, che pare uscito dall’orto di Gulliver o dalle atmosfere di Alice, è in ebollizione come una pentola a pressione, in fermento lavico fagocita tutto attorno come un grande buco nero.

Da lì tutto parte e tutto ritorna, attira e sprofonda. La costruzione di un mondo fantastico, con tanto di trampolieri e parata-danza macabra, il fungo-medusa, quasi carrozza-zucca di Cenerentola, è al suo apice ma rimane molto estetica a discapito della riflessione, molto wow e poca profondità.

Strabiliante e debordante potenza, pur nel titanico complesso d’elementi, ha suscitato Fies a cheval dei Des Quidams, dove un domatore dirige e fa danzare queste creature mitologiche, Centauri con la parte inferiore del corpo da uomini mentre la parte superiore da cavalli gonfiabili imbizzarriti, bianchi e immensi. Le luci sulla facciata di Stupinigi e le musiche enfatiche e suggestive creano un tappeto di sogno, da alieni incandescenti, mongolfiere o ectoplasmi, zucche di Halloween o “rificolone” fiorentine, patinature fluorescenti.

Le mosse e le movenze di questi esseri splendidi nella loro magnificenza ed eleganza ricordavano il dressage in un rito che certamente non ci conduceva ai cowboy o ai butteri ma più all’Ippogrifo, alla Samarcanda di Vecchioni, l’Unicorno o Pegaso che infatti appare, stagliandosi ancora più appariscente nel cielo con le sue ali candide: siamo fatti della stessa sostanza dei sogni.

Di estrema essenzialità e piccolezza, fragile e minuto, è invece Hetre dei Libertivore dove un ramo ricurvo pende come un impiccato da un alto treppiede che poteva sembrare il telaio e l’ossatura di una tenda indiana. Una danzatrice interagisce con il legno liscio, nodoso e fallico come una rabdomante, adesso fuggendone o girandogli intorno, scappando, passandogli sotto, fino a domarlo, saltarci sopra, come una strega con la scopa in un rapporto carnale, viscerale, di necessità e forza, abbraccio e spirale del dna, altalena o scimmia in un gioco d’alternanza di pesi e bilanciamenti.

Nei suoi giri ripetuti e ipnotizzanti, come il lancio di una pallina sfinita nella roulette o la trance dei dervishi rotanti o infine pendolo di Foucault, il pezzo collodiano sembra prendere vita propria, muovendosi, ondeggiando animalesco. La semplicità è merce rara. Come diceva Italo Calvino, “Torino è una città che invita al rigore, alla linearità, allo stile. Invita alla logica, e attraverso la logica apre alla follia”.