Cary Grant si faceva di LSD, aveva una sessualità non definita, e un rapporto complicatissimo con la madre che l’abbandonò. Strano ma vero. E magari lo sapevano già tutti. Eppure nello straordinario, dolce e rispettoso documentario Becoming Cary Grant di Mark Kidel (in anteprima italiana al festival del Cinema Ritrovato 2017) ecco riemergere grazie proprio ad una terapia a base di sedute psicanalitiche e LSD per tre anni (a metà anni cinquanta era tra le sostanze consentite dal governo americano) quell’Archie Lech nato a Bristol nel 1904 in una famiglia poverissima e poi divenuto interprete sofisticato e popolare di commedie romantiche fin dai primi anni trenta. Le cinque mogli, la timidezza nascosta, quelle chiacchiere mai smentite su una latente omosessualità, l’Oscar alla carriera da anziano, Grant torna ad essere quella figura attoriale mai volgare, un gentlemen compito ed elegante che con la maschera del cinema cela l’instabilità e l’irrequietezza di un’intimità tormentata che deve sbocciare per poter essere affrontata e superata.
Un lavoro di ricostruzione biografica estremamente delicato che sfiora il mito del “comedian”, tra super8 privati e testimonianze familiari attuali, star mondiale che ha saputo giocare anche su una sorta di registro comico demenziale perfino travestendosi in scena senza mai perdere l’aplomb e la compostezza dei capelli con riga pettinati di lato, e che tocca l’apice della carriera con l’affabile e tagliente sua presenza nel cinema hitchcockiano. È la prima volta che Cary/Archie viene mostrato in forma autobiografica grazie soprattutto ad un’intervista del 1963, che l’attore entusiasta dei risultati delle cure psicanalitiche concesse a un giornale, da cui la voce fuori campo del documentario trae spunto per queste tracce di monologo interiore doloroso e toccante.