I cento giorni tra marzo e luglio 2017 rappresentano la prima crisi nel governo di papa Francesco. Troppi casi si sono accumulati in rapida successione. Le dimissioni di Marie Collins dalla commissione per la protezione dei minori a marzo, l’addio improvviso di un professionista di primo rango come Libero Milone dal suo incarico di Revisore generale dei conti in Vaticano, l’affaire del neo-cardinale del Mali Jean Zerbo incapace di spiegare il destino di 12 milioni parcheggiati a suo nome in banche svizzere, il brusco allontanamento (che nessuno crede provvisorio) del cardinale George Pell – membro del consiglio della corona dei 9 cardinali che assistono il pontefice e responsabile della Segreteria economica della Santa Sede – costretto a recarsi in Australia per rispondere ad accuse di abusi, l’inaspettata rimozione del prefetto della Congregazione per la dottrina delle fede cardinale Gerhard Ludwig Müller, la sua sostituzione alla testa dell’ex Sant’Uffizio con il gesuita Luis Ladaria, rivelatosi firmatario di un documento che invitava il vescovo di Lucera a non scandalizzare i fedeli con la notizia della dimissione dallo stato sacerdotale del prete pedofilo Gianni Trotta (che approfittando dell’omertà diventerà allenatore di una squadra giovanile di calcio commettendo nuovi crimini).

E’ un accavallarsi di vicende talmente delicate da non poter essere trattate come singoli episodi che richiedono solo ordinaria manutenzione. Colpisce che in questo groviglio emergano due questioni cruciali, che attirarono immediatamente l’attenzione dell’opinione pubblica cattolica e no all’inizio del pontificato, quando Francesco fece capire che doveva esserci tolleranza zero riguardo agli abusi e totale trasparenza nelle questioni finanziarie. Le vicende pur diverse di Collins, Pell e Ladaria rimandano alla questione di una rigorosa strategia di contrasto ad abusi e connivenze e alle carenze, che si sono manifestate in questo campo.

Le vicende del tutto dissimili di Milone e Zerbo richiamano la necessità di una politica di trasparenza totale negli affari economici non solo del Vaticano ma anche delle Chiese cattoliche locali. L’affare Mueller, invece, tocca un’altra questione importante: l’esigenza che in Curia ci sia un gioco di squadra per sostenere l’ “aggiornamento” propugnato dal pontefice argentino.
Il punto è che nell’insieme dei casi sono emerse disfunzioni nel campo della gestione e dunque serve una svolta nelle decisioni papali.

Non c’è dubbio che l’affare Pell sia stato condotto male. Da tempo si erano levate voci perché si evitasse che una personalità così in vista del consiglio ristretto del Papa fosse travolta da una nuova ondata di accuse relative ad abusi coperti o commessi. A metà giugno era nota nelle alte sfere vaticane la sua posizione pericolante. “Pell ha scheletri nell’armadio non di poco conto”, mi confidava un funzionario vaticano.

Preavvertire i giornalisti alle quattro di notte per una conferenza stampa da tenersi di primo mattino dimostra un modo di gestire “dilettantesco”, ha scritto la vaticanista Isabelle de Gaulmyn del giornale cattolico francese La Croix. “La Chiesa si muove perché la giustizia (statale) si muove. Invece dovrebbe essere il contrario. Non era in gioco qui il principio di presunzione di innocenza, ma il principio di precauzione che è stato disatteso.

Ma la domanda principale, anche alla luce dell’allontanamento di Müller, adesso riguarda il prossimo futuro. Si farà o no quel tribunale speciale a cui possano rivolgersi le vittime di abusi nel caso vi siano vescovi locali negligenti che non perseguono preti-predatori? E si darà o no un ruolo efficace alla commissione per la protezione dei minori, che non può restare una confraternita di riflessioni, ma il cui unico vero scopo dovrebbe essere quello di elaborare linee-guida obbligatorie per quelle conferenze episcopali che continuano ad affrontare il problema della pedofilia con una calma che rasenta l’indifferenza?

Secondo punto, i soldi. Pell – nella sua versione di supervisore dei bilanci delle amministrazioni vaticane – sarà pure stato un cattivo carattere. Ma aveva chiaro in testa l’obiettivo di disboscare la giungla di comportamenti arbitrari a volte illegali nella gestione finanziaria in atto nei vari settori della Santa Sede. Ora che se ne è andato anche il Revisore generale dei conti Milone, in che modo si intende realizzare una linea di rigore e trasparenza?

Non dimentichiamo che due anni fa si è scoperto che nell’Apsa (che internazionalmente ha il ruolo di una banca centrale di Stato) si sono scoperti conti cifrati intestati a un finanziere, a disposizione di torbide operazioni. Non dimentichiamo che è inutile che l’Autorità di informazione finanziaria porti alla luce gravi irregolarità, se poi quasi nessuno degli autori risulti processato dai tribunali vaticani.

Sono nodi che spetta a Francesco sciogliere in tempi rapidi. Nodi che richiedono soluzioni chiare ed efficaci, se si vuole ridare slancio all’azione riformatrice su temi estremamente sensibili.
E c’è un’ultima questione. La rimozione di Müller, che faceva sistematicamente il controcanto alla linea pastorale di papa Bergoglio, riporta in primo piano l’esigenza che il pontefice crei in Curia una squadra omogenea di riformatori a tutti i livelli.

Finora – all’insegna dell’inclusione e del rispetto il più possibile delle nomine fatte a suo tempo da Benedetto XVI – si sono lasciati in larga parte i vertici curiali così come si sono formati nell’era di Wojtyla e Ratzinger. Ma una Chiesa in cammino, come la vuole Bergoglio, ha bisogno di una pattuglia di guida animata dagli stessi obiettivi. Anche queste scelte toccano ora a Francesco.
Altrimenti la macchina si inceppa. E si vede con quali risultati.

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