Il gruppo avrebbe avuto interessi negli appalti pubblici grazie alla collusione di alcuni membri dell’amministrazione comunale per l’acquisizione di immobili da adibire ad alloggi popolari, ma avevano anche nella corse clandestine di cavalli e nelle scommesse
Una rete che coinvolgeva imprenditori, un funzionario del Comune e anche un avvocato, Andrea Lo Castro. Sono trenta le persone arrestate dal Ros a Messina perché ritenuti vicini al clan Santapaola di Catania, la cui infiltrazione per la prima volta sarebbe stata accertata nella città. Le accuse, a vario titolo, sono di associazione mafiosa, estorsione, trasferimento fraudolento di valori, turbata libertà degli incanti, esercizio abusivo dell’attività di giochi e scommesse, riciclaggio e possesso illegale di armi. Secondo la Dda di Messina sarebbero “tutti connessi a un disegno di gestione di interessi economici illeciti contrassegnati da riservatezza e reciproca affidabilità”. Solo il 4 luglio scorso, un maxi blitz dei Carabinieri a Catania aveva portato all’arresto di 54 persone, accusate di essere esponenti del clan di Cosa nostra del rione San Giovanni Galermo, ritenuto tra i più affidabili dal boss Benedetto Santapaola.
Secondo gli inquirenti, gli arrestati avevano interessi negli appalti pubblici grazie alla collusione di alcuni funzionari dell’amministrazione comunale per l’acquisizione di immobili da adibire ad alloggi popolari, ma avevano anche interessi nella corse clandestine di cavalli e nelle scommesse. In un episodio in particolare, riferito al risanamento della zona di Fondo fucile, non si sarebbe data esecuzione all’appalto per rinuncia degli stessi indagati che, in corso d’opera, “hanno ritenuto economicamente più vantaggioso alienare gli immobili sul libero mercat”o. Il gruppo avrebbe avuto interessi anche negli appalti dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e di Expo. Il clan poteva contare, secondo l’accusa, su informatori in uffici pubblici, di polizia e della Procura. Contestato anche il reato di concorso esterno in associazione mafiosa all’avvocato Lo Castro, che avrebbe “messo a disposizione del gruppo criminale le proprie competenze professionali per consentire il riciclaggio di denaro tramite falsa intestazione di beni e l’elaborazione di strategie per la frode ai creditori”.
Le indagini hanno rivelato l’esistenza di un clan che preferisce il “basso profilo”, che non vuole atti criminali eclatanti, anzi è lontano da bande armate e ‘santini’ bruciati col sangue degli affiliati, ma che diventa imprenditore. Una logica operativa della cosca Santapaola che a Messina aveva finora agito in maniera “indiretta”, con alleanze locali. Un modus operandi che opera nel solco della linea avviata da Cosa nostra catanese: collocata all’interno dell’economia reale e delle relazioni socioeconomiche, con agganci in ogni settore della società che conta. Una ‘entità’ capace di teorizzare, come emerge nelle intercettazioni, l’abbandono delle forme criminali violente e del rituale mafioso e, tra le altre cose, per gestire società di servizi o controllare in modo diretto appalti su scala nazionale. Le indagini fanno emergere la fotografia di una struttura criminale “moderna” che ha sostituito i manager ai padrini e che opera per il profitto col “concorso esterno” delle squadre che sparano, più difficile da scardinare perché nascosta e infiltrata. Singolare inoltre la sostituzione del pizzo con altre forme di intervento economico, grazie anche a società che forniscono servizi alle imprese (come le cooperative nel settore dalle forniture alimentari) o gestiscono in subappalto la fornitura di prodotti parasanitari per conto delle Asl.