Nel giorno della scomparsa di Elsa Martinelli, ripubblichiamo l’intervista che l’attrice aveva concesso a Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, comparsa sul nostro quotidiano nel gennaio 2016
Le leggende da riscrivere: “Alberto Sordi era taccagno? Vi confondete con Brigitte Bardot, lei sì che era veramente tirchia”, la creativa galanteria del tempo andato: “Gary Cooper mi diede il benvenuto usando una scarpa di raso come calice per lo champagne”, i versi che le dedicò Rino Gaetano: “Quando incede è una gazzella/sotto il sole non si spella”, i film con Orson Welles: “Che come sappiamo tutti faceva il cinema soprattutto per i soldi e aveva una voce che avresti riconosciuto tra mille altre”, le copertine di Life. A dieci giorni dal compleanno numero ottantuno, Elsa Martinelli da Poggioferro: “Ma nacqui per caso a Grosseto, la città più brutta della Toscana intera” aspetta di raccontarsi nella sala di un albergo romano in cui la sete del mezzogiorno invernale risveglia desideri estivi: “Acqua? No, quella bevetela voi, io vorrei un Franciacorta”. Quasi settanta film, nessuna nostalgia: “Ho sempre vissuto nel presente, anzi nel futuro. A vent’anni, quando di Armstrong non si sapeva ancora nulla e io già divoravo i libri di Ray Bradbury, volevo già andare sulla luna”, molta intraprendenza nell’Italia appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale: “Il mio primo lavoro, se si può chiamare così, fu l’infilatrice di perle”.
Che occupazione era?
Un lavoro noioso. La mia famiglia si era appena trasferita a Roma e mia madre mi presentò a Fausta, la sua amica ricamatrice che lavorava a due passi dal Pantheon. “Falle imparare un mestiere” disse mamma e io un mestiere imparai.
Gli anni della gavetta.
Eravamo un gruppo di amici, di fantastici morti di fame. Escluso Enrico Lucherini che aveva ascendenze borghesi, il resto della truppa non aveva una lira. Io, Edda Lancetti, Giancarla Rosi, la moglie di Francesco. Un manipolo di disgraziati, di casinisti, di gente che a dormire proprio non voleva andare.
E senza andare a dormire cosa facevate?
Grandi scherzi telefonici. Allora, senza internet, tablet e smartphone, gli elenchi telefonici erano una miniera di informazioni. C’erano nomi, cognomi e indirizzi. Finivamo per concentrarci sui condomini che conoscevamo. Chiamavamo in piena notte: “Signora Cavoletti? Sono il vicino, ho la casa allagata. C’è una perdita d’acqua, chiami subito i pompieri, faccia presto”.
E la signora Cavoletti?
Li chiamava davvero. Tra noi c’erano imitatori formidabili.
Come arrivò a recitare?
Per caso, dopo aver consegnato cappelli e battuto scontrini per il proprietario di un bar affacciato sul quartiere Coppedè. C’era un posto da cassiera: “Che ce vò? Spingi un tasto, dai il resto, saluti con il buongiorno”. Una cosa facile. Con i primi soldi andai a provarmi una gonna che non mi sarei mai potuta permettere nel negozio di Capucci in Via Frattina.
Roberto Capucci, grande stilista e suo scopritore, lo incontrò lì.
Fu tutto molto rapido. Gli piacqui, mi venne fatta qualche foto, sfilai in bikini a Firenze in un’età in cui stava tramontando il mito della maggiorata e si cercava un nuovo tipo di fisicità. Divenni la modella del nuovo corso. Il primo ombelico fuori dai jeans, la frangetta, il trucco leggero, quasi inesistente. Un prototipo di bellezza marziana da proporre ai grandi fotografi americani che cercavano icone distanti dalle immagini che avevano dominato in un recente passato.
Alta, androgina, bellissima, vagamente altera. Lei era perfetta.
A loro parve che la mia figura anticipasse i tempi. Andai negli Usa, a New York e da Irving Penn ad Richard Avedon, lavorai un po’ con tutti i più grandi fotografi d’America.
Poco dopo arrivò la copertina di Life.
Kirk Douglas la vide e mi volle per Il cacciatore di indiani. In realtà di Hollywood io non volevo saperne.
Veramente?
E veramente sì. Los Angeles era terrificante. Una non città in cui non capivi mai se fosse giorno o notte. Che mi fregava di Los Angeles? A New York stavo benissimo. E glielo dissi chiaramente.
Glielo disse?
E certo. Andai da Douglas, ringraziai per l’occasione e poi glielo dissi: “Che mi frega di Los Angeles?”.
E Douglas?
Mi spiegò che era un bel film, il primo in cui un bianco sposava un’indiana e poi davanti ai dubbi si fece una risata: “Niente Los Angeles, non preoccuparti, giriamo tutto in Oregon”. “E ‘ndo sta l’Oregon?” risposi.
Lo scoprì.
Anche se in realtà non c’era niente da scoprire. L’America del 1954, grazie a mio padre, un uomo colto e straordinario, era un libro aperto. Papà passava le domeniche a Porta Portese. Saccheggiava le bancarelle con i libri di George Bernard Shaw ed era un amante della letteratura. Parlava un toscano meraviglioso. Recitava La Divina Commedia a memoria. Altro che quella nenia di Benigni.
Quella nenia?
Ma sì, quel toscano finto, forzato, eccessivo. Quando legge Dante Benigni fa ridere. Papà non lo declamava in Toscano, Alighieri. Lo interpretava traducendolo in italiano. La gente, da Antonioni a Monicelli, stava ad ascoltarlo a bocca aperta.
Con Monicelli lavorò in Donatella, poco dopo Il Cacciatore di indiani.
C’erano Aldo Fabrizi, Gabriele Ferzetti e Walter Chiari. Con Monicelli siamo stati amici fino alla fine. Per i suoi novant’anni, lo intervistai per un settimanale. Appuntamento nel Rione Monti, in un bar vicino a casa sua.
Una bella intervista?
Mario, a differenza di Dino Risi, non era capace di un umorismo leggero. Certo, era spiritoso, ma era soprattutto cattivo, tagliente e molto burbero. Quella mattina, per un equivoco, ci vedemmo con venti minuti di ritardo. Lui mi aspettava in un bar, io in un altro. Alla fine ci incontrammo e quando mi vide mi fece una scenata.
Una scenata?
Avrebbe dovuto fare l’intervista e anche le foto. Non gli andava. Era incazzatissimo: “Chi siete? Io non vi conosco. Me ne vado, basta, non me ne frega niente”. “Mario non rompere, guarda che ti ho aspettato anch’io”. “Vabbè, che dobbiamo fa?”, “Due foto, Mario. Solo due foto”. “Ce ne sono tante in giro, che bisogno c’è di farne altre?”. Alla fine lo convinsi. L’intervista, per rispondere a quel che mi domandavate prima, sì, venne molto bene.
Di Donatella che ricordi ha?
Dolorosi. Contraddittori. Sul set andò tutto bene, ma mio padre finì sotto a un autobus mentre veniva a trovarmi sul set, su un motorino che gli avevo regalato io. Morì poco tempo dopo.
Ha sofferto molto nella vita?
Sono stata anche molto felice. Ho imparato a cavarmela in fretta. I miei avevano messo al mondo una squadra di calcio. Io, per dire, ero il figlio numero nove.
Aveva imparato a cavarsela anche l’umile Anna de La Notte brava di Mauro Bolognini liberamente tratto da Ragazzi di Vita di Pasolini.
Dovevo interpretare una prostituta, ma non ero credibile. Bolognini ed Ennio Flaiano insistettero con i produttori e la grana restò nelle mani di Piero Tosi. Non si riusciva a trovare il vestito adatto: “Piero, mi sa che da quest’inferno non usciamo”. Piero si impegnò e alla fine trovò la soluzione: “Ti ricordi di Louise Brooks?”.
La grande attrice americana del cinema muto.
Non se la ricordava nessuno, neanche Flaiano. Io sì. Tosi, un genio, mi portò da Rocchetti e mi fece fare un parrucchino da disgraziata assolutamente divino. Le scarpe di coppale con il cinturino nero, volgarissime, le avevamo già trovate. Il personaggio lentamente prese forma. E girammo. La produzione pagò le mignotte vere perché stessero lontane da Caracalla e dai suoi fuochi.
Dopo Bolognini fu scelta da Dino Risi per Un amore a Roma.
Dell’umorismo di Dino, uomo bellissimo, vi ho già detto. Aveva una battuta su tutto. Sul set di Un amore a Roma, un magnifico ritratto della Roma di allora, non c’era un soldo. “Bambole non c’è una lira” ripeteva allegro Dino come se la cosa non lo riguardasse. Risi è stato l’uomo più divertente che abbia conosciuto nel mondo del cinema.
Si è divertita molto?
Sono stata fortunata. Quelli in gamba li ho conosciuti tutti. I furbi e gli idioti.
Tra i furbi?
Dino De Laurentiis. Pensiero sveltissimo. Voleva fare il remake di Riso Amaro e mi convocò per mettermi sotto contratto. Io naturalmente con le mondine non c’entravo niente.
Però accettò.
Mandai un amico a trattare e non me ne pentii. Dino mi dette un sacco di soldi e mi comprai una casa. L’ingaggio mi fece sopportare di buon grado le zanzare.
Il film si intitolava La risaia.
L’ho rivisto recentemente a Torino. Matarazzo, il regista, era un cinematografaro di talento. Sembrava di essere in Cina vedendo quelle mondine. Sinceramente, La risaia è meglio dell’originale. Rispetto a Riso Amaro sembra Ben Hur. Nel film di De Santis, Gassman è di un ridicolo assoluto. È una macchietta. Vittorio era d’accordo con me.
Ne La Risaia c’era anche Aldo Fabrizi, per qualcuno il progenitore di Alberto Sordi. Come lui famoso per la bravura e per la memorabile avarizia.
Ve l’ho già detto, Sordi era generosissimo. Come era generoso Aldo. Certe fandonie ti rimangono attaccate come un marchio. Non so da dove venga questa storia dell’avarizia di Alberto, il più grande attore italiano del dopoguerra. Sordi era un signore. A Parigi mi passava a prendere in limousine. Con lui credo di non aver mai pagato neanche un caffè con lui.
Altri tratti peculiari?
Una cosa che credo si sappia poco è che Alberto detestava Roma. Voleva starci il meno possibile. Abbiamo fatto viaggi meravigliosi insieme. In Brasile lo portai a vedere una macumba.
Una vera macumba?
Una baracconata, come tutte le macumbe, che però Alberto si bevette fino all’ultimo. Andammo in un favela, lasciammo la macchina, ci inerpicammo su un sentiero fino ad arrivare a una specie di chiesa. Il luogo del rito. Sordi era curioso e ovviamente terrorizzato. Quando da una cesta di Viminì uscì un serpente pensai che mi morisse lì: “Ma ‘ndo m’hai portato?” continuava a ripetere.
Ha detto “Il più grande attore italiano del dopoguerra”. Più di Mastroianni?
Diversi. Marcello, attore comunque straordinario, proprio come Sordi è stato sempre raccontato male. Il sempliciotto che corre a mangiare le polpette dalla madre e che non ha mai un’opinione. Mastroianni le opinioni le aveva eccome. E uno che ha quella varietà di tratto, uno che sa indossare tutti quei panni riuscendo sempre a risultare vero, un sempliciotto non può essere.
Perché?
Sapeva trasformarsi in chiunque, Marcello. Io lo chiamavo Pongo. Mastroianni era al servizio di un mestiere che è una cosa diversa dall’essere semplici. Volete la verità? Marcello era un sofisticato. A suo modo, un grandissimo snob. Sul set de La decima vittima mi diceva: “Elsa, ma ti pare che io, che so stato pure candidato all’Oscar, dopo 30 anni di cinema sto ancora a magnà pe’ strada?”
L’ha mai visto litigare?
Eccome. A casa di Giancarla Rosi, quando ascoltava i rossi, si infiammava. Controbatteva. Contestava. Eccepiva.
Mastroianni non era comunista.
Neanche un po’. Socialista direi.
E lei era comunista?
Mai stata comunista in vita mia. Posso capire il comunismo nel 1948 e mi spingo a comprendere anche alcune battaglie femministe, ma in generale, essere comunisti che senso aveva?
Non lo chieda a noi.
Nel salotto di casa Rosi, come è ovvio, i comunisti abbondavano. Da Trombadori in giù era un covo quello. Un covo in cui si parlava sempre di politica. Una sera portai Marlon Brando. C’erano capannelli in cui si discuteva animatamente. Il povero Brando non se lo filò nessuno.
A proposito di politica. È vero che Craxi le chiese di occuparsi del suo look?
Verissimo. Ma rifiutai. Ero amica di sua moglie, Anna. La andavo a trovare nella sua casa di Via Foppa. Craxi non è stato un ladro. Neanche un po’. Mi piacerebbe tanto sapere dove è finito il suo presunto tesoro.
I soldi sono stati importanti?
I soldi? Sono stati acqua scivolata dalla mani. Le ho sempre avute bucate le mani. Il denaro è venuto, è andato, non mi è mai sembrato una cosa reale.
Lei si è ritirata dalle scene all’inizio degli anni ’70. Quando avrebbe potuto avere ancora molte offerte.
Il cinema stava cambiando e si percepiva la fine di un’epoca. Tutti i miei amici, da Fellini a Rosi, perdevano smalto. Persino uno come Scola, il regista che con Una giornata particolare, aveva girato il film più bello del mondo, non riusciva a ripetersi.
Nessun rimpianto quindi?
Ma quando mai? Certo mi piacerebbe essere ancora a cena con Orson Welles, parlare con John Wayne, salutare John Kennedy in pigiama sulla porta di una casa di Palm Springs all’alba, ma non si può fare. Il passato non torna. E non mi dispero. Non penso mai alla mia età.
Cosa ha scoperto con il cinema?
Che tu sei bravo solo se hai davanti un attore più bravo di te: di solito i cretini sono gelosi dell’attore più bravo. È un errore.
Quanti attori cretini ha incontrato?
Pochi, forse un paio in tutto. Ma essere cretini non conviene mai. Meglio l’umiltà.
I nomi dei cretini? Di uno almeno?
Sul set del film di Howard Hawks, Hatari!, c’era un francese pieno di sé, Gèrard Blain. Era presuntuoso. John Wayne che era John Wayne, gli chiese se aveva bisogno di aiuto nell’usare le pistole. Lui rispose sprezzante a Wayne e al regista: “I don’t need help”. Hawks glielà giuro. Fateci caso. All’inizio del film Blain è molto presente. Poi sparisce. Alla fine, raccogli sempre quel che semini.