Aumenta, anziché diminuire, la passione degli italiani per l’automobile, nonostante le crisi ambientali, la congestione da traffico e gli inviti dell’Unione a ridurre l’inquinamento dell’aria. Il trasporto locale ha infatti perso oltre sei punti di quota modale tra il 2002 e il 2016 (passando dal 37,2% al 31,1% – dati Isfort/Aci)
Questo è l’amaro risultato, malgrado i roboanti proclami sulla sostenibilità. Mentre le aziende di trasporto perdono terreno in un contesto protetto e garantito da risorse pubbliche (che arrivano a intermittenza, ma arrivano anche a discapito di altri bisogni sociali). Mentre i pendolari si lamentano ogni giorno di tagli e disservizi, fino al punto di essere “costretti” a usare l’automobile per recarsi al lavoro, assistiamo al paradosso nell’azione del governo.
Nelle pieghe della manovrina, il governo sopprime il regio decreto 148 del 1931 che tutela il lavoratore, a prescindere dallo stato di salute dell’azienda, per avviare un processo di riforma nel settore del trasporto pubblico locale (Tpl). Paradossalmente lo stesso governo reintroduce, con alcuni emendamenti, la conservazione di tutti i diritti acquisiti (orario di lavoro, disciplina, salario) e la loro estensione con i contratti di secondo livello e territoriali in caso di trasferimento dell’autoferrotranviere. In tale modo il trasporto locale resta ingessato, come lo è da 30 anni, in quanto non sarà ancora possibile fare le gare sul modello europeo, rilanciando, sviluppando e trasformando in meglio il trasporto pubblico. Condannandoci ad avere servizi inefficienti.
Se il ministero dei Trasporti smentisce le sue dichiarazioni riformatrici, le aziende (quelle pubbliche e grandi in particolare) sono consenzienti. Anzi, nell’intesa emendativa Mit- Sindacati, si è aggiunto anche il ripristino di una “scala mobile” per le aziende, legando i contributi pubblici all’inflazione programmata. Il sistema così diventa ancora più blindato di prima, se si pensa che la leva delle tariffe (ricavi) è sostanzialmente bloccata e quella del costo del lavoro rimane invariata a prescindere dalla produttività, dallo stato (tecnico/finanziario) delle aziende e dalla qualità del servizio reso. In queste condizioni il Tpl, anche riducendo il livello dei servizi (come si sta facendo), non riuscirebbe mai a limitare l’aumento dei costi. Una riduzione del servizio del 5% delle corse comporterebbe una riduzione solo dell’1,5% del previsto incremento dei costi. All’altissimo livello di protezione contrattuale e sociale dei lavoratori, non corrisponde infatti né un buon livello dei servizi né una situazione finanziaria rosea del settore. Condizioni impossibili per qualsiasi altra azienda anche se opera su un mercato regolamentato e sussidiato come quello del Tpl.
Quindi il prossimo decreto della “Repubblica”, che sostituirà quello “Regio” n. 148, sarà ancor più corporativo ed iniquo del precedente, giacché i lavoratori flessibili, i lavoratori autonomi e, le nuove professioni del progresso tecnico sono senza regole e tutele, a differenza dei loro colleghi autoferrotranvieri. Mentre i cambiamenti dei mestieri, dei profili professionali e l’arrivo di nuove professionalità digitali sconvolgono il mondo del lavoro, ci sono sacche garantite che né governo, né i sindacati (anche quelli ex confederali) vogliono disciplinare.
Meglio assecondare le categorie più forti e consociative che cambiare realmente le cose. Così però il Paese non cresce, le risorse pubbliche producono un pessimo servizio di trasporto e si consolidano principi di iniquità, anziché di maggiore e necessaria equità.