L’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi era stata chiusa il 17 gennaio scorso con l’ipotesi che il geometra fosse stato pestato dai militari dell’Arma che lo avevano fermato. Oggi il gup del Tribunale di Roma ha disposto il rinvio a giudizio dei carabinieri imputati. Il geometra romano morì nell’ottobre 2009 a Roma una settimana dopo il suo arresto per droga. “Finalmente i responsabili della morte di mio fratello, le stesse persone che per otto anni si sono nascoste dietro le loro divise, saranno chiamati a rispondere di quanto commesso”, è stato il commento della sorella Ilaria Cucchi. “Andranno in aula come imputati senza più contare di poterlo fare sulla pelle degli altri”, ha detto invece l’avvocato della famiglia Fabio Anselmo.
Il processo per gli imputati comincerà il prossimo 13 ottobre davanti alla Terza Corte d’Assise. Il rinvio a processo è stato deciso dal giudice Cinzia Parasporo nell’udienza preliminare che si è tenuta a piazzale Clodio. Sono cinque i militari imputati: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale (mentre è prescritto l’abuso di autorità). Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso. Nel procedimento si sono costituiti parte civile i familiari del giovane, il Comune di Roma, Cittadinanzattiva e gli agenti della penitenziaria accusati accusati nella prima inchiesta sulla morte del giovane.
Cucchi – come si leggeva nell’avviso di chiusura delle indagini, atto che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio – fu colpito a “schiaffi, pugni e calci“. Le botte, per l’accusa, provocarono “una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale”, provocando sul giovane “lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni e in parte con esiti permanenti, ma che nel caso in specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte“.
“Le lesioni procurate a Stefano Cucchi – si leggeva sempre nel provvedimento dei pm – il quale fra le altre cose, durante la degenza presso l’ospedale Sandro Pertini subiva un notevole calo ponderale anche perché non si alimentava correttamente a causa e in ragione del trauma subito, ne cagionavano la morte”. “In particolare – scrivono i pm – la frattura scomposta” della vertebra “S4 e la conseguente lesione delle radici posteriori del nervo sacrale determinavano l’insorgenza di una vescica neurogenica, atonica, con conseguente difficoltà nell’urinare, con successiva abnorme acuta distensione vescicale per l’elevata ritenzione urinaria non correttamente drenata dal catetere”. Una quadro clinico che “accentuava la bradicardia giunzionale con conseguente aritmia mortale“.
Il 31enne romano venne arrestato il 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Quella notte, i carabinieri lo accompagnarono a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportarono in caserma con loro e lo rinchiusero in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, Stefano aveva difficoltà a camminare e parlare e mostrava evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalidò l’arresto, fissando una nuova udienza.
Cucchi venne rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, ma le sue condizioni di salute peggiorarono rapidamente e, il 17, venne trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Chiaro il referto: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. I medici chiesero il ricovero che Stefano rifiutò insistentemente, tanto da essere rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini, dove morì il 22 ottobre. Solo a questo punto, dopo vani tentativi, i suoi familiari riuscirono a ottenere l’autorizzazione per vederlo: il corpo pesava meno di 40 chili e presentava evidenti segni di percosse.