Nei mesi immediatamente successivi al golpe la popolarità di Erdogan era alle stelle e anche tra chi lo aveva sempre osteggiato molti, contro la minaccia del colpo di stato, si schieravano dalla sua parte. Quei tempi sono finiti, come dimostrato dal referendum costituzionale vinto di misura ad aprile. La sua leadership non è, ad oggi, certamente in discussione ma l’opposizione è viva e, dopo molto tempo, è tornata a farsi sentire
“Il 15 luglio è stato un punto di svolta per la Repubblica Turca. Da quella data nulla è più come prima”. Lo ha detto Recep Tayyip Erdogan durante una delle tante cerimonie, spalmate su un’intera settimana, per celebrare il primo anniversario del tentato golpe. Una notte nella quale si consumò una vera e propria carneficina, alla fine si contarono circa 250 morti e oltre 2000 feriti. Il presidente ha invitato la popolazione a dare vita, per 24 ore a partire dalla mezzanotte di oggi, ad una simbolica “demokrasi nobeti” in diverse città, come nei giorni dopo il golpe quando la gente affollava le piazze per vigilare sulla democrazia. Per tre settimane il suo popolo presidiò le città fino alla manifestazione conclusiva a Yenikapi, nella parte occidentale di Istanbul, alla quale presero parte almeno un milione e mezzo di persone. Per permettere alla gente di scendere in piazza, anche oggi come un anno fa, sui mezzi pubblici non si paga il biglietto.
Gli arresti e le epurazioni dopo il fallito golpe
La partecipazione popolare e il sentimento dei cittadini turchi che, al di là delle divisioni politiche, si sono uniti di fronte al pericolo, è una faccia della medaglia. L’altra sono le epurazioni, iniziate il giorno dopo il tentato colpo di stato e non ancora finite. Da allora oltre 130mila persone sono state rimosse dall’incarico che ricoprivano: 103.824 pubblici impiegati sono stati licenziati e altri 33.483 sono stati sospesi. Altre 50.546 persone sono state incarcerate perché sospettate di far parte dell’organizzazione che fa capo a Fethullah Gulen, considerato da Ankara (e da gran parte dei turchi) la mente dietro il tentato colpo di stato. Oltre agli arresti ci sono, poi, altri 8mila avvisi di garanzia.
Nel frattempo, proprio in questi giorni, è arrivata la notizia che le indagini per quanto accaduto un anno fa sul primo ponte sul Bosforo, ribattezzato poi “Ponte dei martiri del 15 luglio”, si sono concluse. Le immagini dei militari golpisti che sparavano sulla folla disarmata hanno fatto il giro del mondo e sono diventate uno dei simboli di quella notte. In totale, sul ponte, morirono 34 persone (tra i quali anche due agenti di polizia). I 143 uomini accusati di aver partecipato a queste azioni (135 dei quali sono in carcere e altri 8 a piede libero) rischiano, ora, 37 ergastoli a testa.
I locali, le meyhane, i caffè erano affollati la notte del 15 luglio di un anno fa, come sempre al venerdì sera. La notizia dei due ponti chiusi fu uno dei primi segnali che ci fecero accorgere che stava accadendo qualcosa di strano. All’inzio in molti pensammo ad un attentato, in fondo l’aeroporto Ataturk era stato attaccato soltanto due settimane prima. Poi quello che stava accadendo divenne chiaro e, in un attimo, i locali si svuotarono. La gente andava a casa non ancora in preda al panico ma più velocemente possibile. I meno giovani ricordavano, rabbrividendo, momenti simili. Il colpo di stato della notte del 27 maggio 1960, quando venne deposto il governo di Adnan Menders (che finì impiccato poco più di un anno dopo), quello del 1971 oppure quello più recente capeggiato, nel 1980, da Kenan Evren. Sulla tv nazionale si vedevano le immagini della giornalista Tijen Karas, il volto contratto e lo sguardo vitreo, minacciata con le armi e costretta a leggere il comunicato di un non meglio definito “Concilio per la pace” che diceva di voler riportare la democrazia nel Paese.
La notte più lunga della Turchia
Anche le modalità del golpe sembravano riportare, all’improvviso, la Turchia indietro di decenni. Ma i tempi erano troppo cambiati perché bastasse prendere la tv di stato per controllare l’informazione e bloccare i ponti per garantire il successo di un golpe. Per qualche ora sembrò che i ribelli ce l’avessero fatta. Non erano riusciti a catturare Erdogan, fuggito (su uno degli aerei che aveva a disposizione) poco prima che un commando entrasse nell’hotel dove si trovava in vacanza, a Marmaris. Tuttavia si rincorrevano le voci che fosse fuori dal Paese, che la Germania avesse rifiutato di dargli asilo e che stesse cercando disperatamente ospitalità in Qatar. Nel frattempo, i caccia dei golpisti volavano bassissimi sopra Ankara ed Istanbul, terrorizzando i cittadini. La colonna sonora di quella notte fu il frastuono infernale dei jet alternato alle esplosioni (che avremmo poi scoperto, il giorno dopo, essere in gran parte prodotte da bombe soniche, utilizzate per spaventare la gente) e alle raffiche di colpi d’arma da fuoco che, in alcuni quartieri, proseguirono fino al mattino. Che il golpe fosse vitualmente concluso e ormai fallito, fu chiaro fin dalle 3.30 quando Erdogan, che non aveva mai abbandonato i cieli turchi, atterrò all’aeroporto Ataturk di Istanbul e venne circondato da una folla entusiasta di sostenitori. Era stato uno dei tentativi di colpo di stato più maldestri (ma non per questo meno sanguinari) della storia. Per questo, nei mesi successivi, non sono mancate teorie di ogni tipo e tentativi di ricostruzione anche molto diversi. In pochi, oggi, sostengono che non si sia trattato di un vero tentativo di golpe ma il governo turco viene accusato, da più parti, di avere approfittato di un colpo di stato rivelatosi subito fallimentare per regolare i conti con i nemici, primi tra tutti i gulenisti.
La marcia per la giustizia contro le epurazioni
Non appena iniziò a parlare, all’aeroporto Atuturk, Erdogan promise: “Faremo pulizia”. Una pulizia che non si è ancora conclusa. La novità è che una parte della Turchia incomincia a protestare per le epurazioni. Kemal Kilicdaroglu, leader del principale partito di opposizione (il Chp), che nei giorni dopo il golpe era apparso spesso al fianco di Erdogan, lo scorso 15 giugno ha dato il via alla “Adalet Yuruyusu”, la marcia per la giustizia. Un lungo cammino da Ankara ad Istanbul: 430 chilometri percorsi in 25 giorni, durante i quali migliaia di persone, dandosi il cambio, lo hanno accompagnato. Al raduno finale a Maltepe, nella parte asiatica di Istanbul, c’erano oltre un milione di persone che protestavano contro il repulisti ancora in atto. La più grande protesta contro il governo dai tempi di Gezi Park. Una manifestazione che, idealmente, fa da contraltare a quella di Yenikapi del 7 agosto 2016, quando Erdogan radunò una folla oceanica. Sul palco quel giorno, al suo fianco, c’era anche Kilicdaroglu a manifestare contro il colpo di stato.
A questa manifestazione Erdogan risponderà oggi e domani con la folla che, dopo il suo appello, scenderà in piazza per celebrare l’anniversario del tentato golpe. Tuttavia una parte della Turchia non sembra più disposta ad accettare che le epurazioni e gli arresti (in un primo momento considerati necessari dalla maggioranza della popolazione) vadano avanti ad oltranza. La marcia di Kilicdaroglu lo ha dimostrato. Nei mesi immediatamente successivi al golpe la popolarità di Erdogan era alle stelle e anche tra chi lo aveva sempre osteggiato molti, contro la minaccia del colpo di stato, si schieravano dalla sua parte. Quei tempi sono finiti, come si era già visto al referendum di aprile, vinto di stretta misura (e con accuse di irregolarità) dalla maggioranza. Erdogan rimane molto popolare e la sua leadership non è, ad oggi, certamente in discussione ma l’opposizione è viva e, dopo molto tempo, è tornata a farsi sentire.