Le mafie producono violenza e al tempo stesso consumano risorse di violenza. Volgendo lo sguardo al passato, ma anche se si guarda al presente, si constata facilmente che in molti si sono garantiti la sopravvivenza, spesso un’ottima sopravvivenza, grazie alla propria peculiare abilità nel servirsi degli strumenti della violenza, e che le loro attività hanno avuto un ruolo molto importante nel determinare gli usi da fare di risorse scarse.
Non è, dunque, casuale, per come rende evidente l’osservazione di quanto accade nell’universo criminale, l’esistenza nel mondo contemporaneo di gruppi mafiosi in grado di agire anche come imprenditori privati di violenza su un determinato territorio. Comprensibile, sebbene inaccettabile, è peraltro la delega di fatto, da parte di molti Stati, di quote consistenti della propria sovranità a entità criminali: non costituisce di per sé un’anomalia storica che i sistemi mafiosi si configurino sempre più spesso come protagonisti di una moderna forma di privateering, ossia di “guerra di corsa”, pratica esclusivamente del tempo di guerra, con cui gli Stati, sin dai secoli più remoti, autorizzano singoli individui ad attaccare il commercio nemico e a trattenere come propria paga una parte stabilita di ciò che hanno catturato.
Non è sempre facile tracciare un confine fra privateers e pirati, scanso di equivoci è bene, però, siano tenute distinte le rispettive modalità d’azione. Il privateer agisce, infatti, sotto l’autorità di uno Stato che accetta o a cui viene imputata la responsabilità dei suoi atti, mentre il pirata agisce per il proprio interesse e sotto la propria autorità. Certo, non manca chi distingue fra vari tipi di pirateria, da quella autorizzata a quella commerciale a quella dei razziatori indipendenti, e fa osservare che qualsiasi pirata, se l’avesse voluto, nel corso della sua carriera, avrebbe potuto esercitarle tutte e tre; tuttavia, deve essere chiaro che per pirateria autorizzata s’intende l’insieme degli atti pirateschi riconosciuti come tali da tutti gli ordinamenti giuridici, ma che restano impuniti, perché il governo responsabile trova vantaggioso ignorarli se non, addirittura, divenirne segretamente il sostenitore.
A prima vista, da un sistema mafioso, in tutto e per tutto moderno e funzionale al capitalismo, sarebbe più logico attendersi la razionalità economica del suo agire, cioè che mantenga il basso profilo di puro crimine organizzato, propenso a privilegiare gli affari e a disinteressarsi della politica. È, tuttavia, a una più attenta osservazione che si coglie come le mafie trovino sempre più spesso conveniente gestire in prima persona cospicue risorse di violenza, anche a costo di esporsi alle “ritorsioni” delle stesse autorità statali allertate, infine, dall’entità raggiunta dal potenziale bellico delle cosche.
È, comunque, l’uso stesso della violenza a dimostrarsi attività altamente redditizia, là dove la si consideri finalizzata alla produzione di quel bene particolare che è la protezione. Stante la loro vocazione mercantile, le mafie, producendo innanzitutto la propria stessa protezione, devono di volta in volta decidere in quale misura reinvestire nell’espansione dei propri apparati militari, in modo da privilegiare la loro componente di potere territoriale, ovvero nell’ampliamento delle loro quote di mercato.
Trattandosi pur sempre di organizzazioni criminali è chiaro che, in ogni caso, l’uso della violenza sarà diretto ad assicurarsi il margine di profitto più ampio possibile e non soltanto a ottenere un trattamento “giusto e imparziale” dagli altri attori presenti nell’ambiente nel quale si trovano a operare, al pari dei propri diretti competitori. Non di meno, la capacità di un clan mafioso di affermare la propria supremazia sugli altri clan dipenderà dalla valutazione delle proprie potenzialità militari e dalla scelta del modo più efficace d’impiegarla.
Assai più facile sarà, comunque, per i mafiosi accumulare una rendita di protezione nei confronti dello Stato. Quest’ultimo, infatti, per un verso non potrà mai determinare i propri costi di protezione sulla base di un puro calcolo economico, dovendo necessariamente mirare al monopolio della forza per via legittima e nel rispetto delle regole, cioè legalmente. In caso contrario, negherebbe la sua stessa natura istituzionale super partes; per l’altro, le mafie potranno godere pur sempre di una rendita aggiuntiva derivante dal loro carattere d’invisibilità.
Lo Stato, insomma, nel valutare gli eventuali vantaggi di una strategia antimafia su un piano esclusivamente militare, non potrà prescindere dal dato di fatto che, da questo punto di vista, la minaccia mafiosa è altrettanto indistinta e generica di quella terroristica. Il mafioso, quali che siano gli ostacoli che vi si possano frapporre, per l’eliminazione di un qualunque rappresentante delle istituzioni pagherà un costo incomparabilmente inferiore a quello sostenuto dallo Stato per difenderlo, potendo contare altresì sul fattore sorpresa, per accrescere le proprie chance di successo.
Inutile dire che, in quanto produttori economicamente efficienti di protezione, i mafiosi generano un surplus del bene violenza, che immettono “utilmente” sul mercato, vendendolo al migliore offerente: a tacer d’altro, per accrescere la propria rendita di protezione le singole consorterie possono anche contare sulla natura diadica dell’estorsione che non solo genera utile immediato, al pari di altre forme più consone di tributo, ma genera anche futura domanda di sicurezza.