Gli intermediatori privati riusciranno a preservare l’universalità del Servizio sanitario nazionale? No, saranno solo una brutta copia del pubblico tenuta in piedi con i soldi dei contribuenti. E porteranno altre disuguaglianze nell’accesso alle cure mediche. Dopo anni di dibattito senza una chiara svolta in un senso o nell’altro, il giudizio degli alti esponenti della Cgil è molto drastico, proprio mentre le idee dei cittadini si fanno sempre più confuse. Le domande sulla questione sono essenzialmente due. Primo: l’istituzionalizzazione di fondi sanitari, assicurazioni o casse professionali, il cosiddetto secondo pilastro che si vorrebbe affiancare al primo, lo Stato, è una soluzione utile, praticabile e sostenibile o è solo un escamotage per passare la palla della sanità pubblica ai privati per di più con il denaro dei contribuenti? Secondo: le deleghe al welfare che i governi italiani stanno sempre più concedendo ai privati sono troppe e troppo alla faccia degli interessi di molti a favore di quelli di pochi? Il tema è di scottante attualità in un Paese che ha da tempo smesso di crescere e dove la necessità e l’opportunità faticano a trovare la giusta combinazione con l’equità.
Soprattutto perché gli esempi di Paesi vicini come Francia, Olanda e Germania testimoniano che “il secondo pilastro del welfare non sta in piedi senza le agevolazioni pubbliche”, come spiega Stefano Cecconi, responsabile Welfare della Cgil. “Lo ha dimostrato anche la storia italiana recente delle mutue che sono esistite fino agli anni ’70, generando aggravio di costi per i conti pubblici e disuguaglianze nell’offerta dei servizi sanitari ai cittadini. Basti pensare che all’epoca c’erano tre milioni di italiani poveri che non avevano coperture e si affidavano alla beneficenza per curarsi”, prosegue. Poi arrivò la riforma che ha portato alla nascita del Sistema sanitario nazionale con un’offerta assicurata in ugual modo a tutti i cittadini. “Tornare a delegare significa fare un passo indietro in una vera e propria Caporetto dei diritti”, continua Cecconi spiegando che nei Paesi stranieri dove il secondo pilastro del welfare è più sviluppato, le assicurazioni “chiedono agevolazioni”, cioè denaro pubblico che “potrebbe essere messo sulla sanità nazionale a vantaggio di tutti”.
Ma perché il secondo pilastro non funziona se non è foraggiato dalle agevolazioni pubbliche? “Innanzitutto, queste forme di intermediazione hanno dei costi aggiuntivi per amministrare il servizio per conto dei cittadini”, precisa il sindacalista, rilevando che, del resto, questo fu il motivo per cui il sistema delle mutue venne superato “perché giudicato non conveniente”. Inoltre il privato “per poter mantenere un’offerta abbordabile per tutti i cittadini, cioè per poter avere una platea di clienti potenzialmente catturabili, deve avere un’offerta che sia a prezzi contenuti – continua – E questa operazione non si può far altro che in due modi: riducendo di molto l’offerta, ma non è conveniente, oppure con il sostegno pubblico attraverso le agevolazioni fiscali”. Infine, non è detto che lo sviluppo del secondo pilastro del welfare possa portare a un risparmio nella spesa sanitaria pubblica: “C’è l’incredibile esperienza degli Stati Uniti, dove c’è una spesa sanitaria complessiva pari al 15% del Pil, con una componente privata molto elevata e una pubblica del 9 per cento. Questo significa che la presenza di un settore privato in un mercato molto libero ha prodotto un effetto di stress anche sulla componente pubblica, in una situazione assolutamente paradossale”. Per queste ragioni, secondo la Cgil, che ha appena concluso una due giorni di riflessione sul futuro della sanità, è necessario che la politica “si occupi innanzitutto del Sistema sanitario nazionale. E poi magari, se ci sono risorse, pensi anche ad agevolazioni del welfare contrattuale di tipo integrativo”, che non può e non deve sostituire l’offerta del Ssn.
“Agevolazioni per pochi pagate da tutti” – L’ultima e più importante iniziativa è quella con cui il governo Renzi nella finanziaria per il 2016 ha confermato la tendenza, sempre più spiccata, di cedere alle imprese una parte del peso del welfare. Con la legge di Bilancio per lo scorso anno, infatti, nell’ambito del ripristino della detassazione dei premi di produttività, sono stati introdotti importanti incentivi al welfare aziendale, come i voucher esentasse per pagare servizi scolastici e assistenza sociale e sanitaria. La norma, indipendentemente dalle intenzioni che sono per definizione non processabili, è stata guardata con sospetto da chi segue con attenzione l’evoluzione, in tempo reale e in prospettiva, dell’universalismo della sanità italiana. Cioè la garanzia a tutti i cittadini, in condizioni di uguaglianza, dell’accesso universale all’erogazione equa delle prestazioni sanitarie. O, in parole povere, di un sistema che offra livelli minimi di assistenza uguali per tutti come previsto dalla Costituzione. Ed è proprio con questo principio che la disposizione fa a pugni, secondo la professoressa Elena Granaglia. “Vengono stanziate agevolazioni, che sono un costo per il bilancio pubblico, solo a favore di alcuni lavoratori”, sostiene la docente di Scienza delle Finanze all’Università Roma Tre, che all’ultimo Festival dell’Economia di Trento dedicato alla salute disuguale ne ha a lungo dibattuto con il suo ideatore, Marco Leonardi, consigliere economico di Palazzo Chigi. “E il costo non è solo finanziario, ci sono anche dei costi in termini di disegno del welfare: io non sono così tranquilla rispetto alle implicazioni che una politica del genere può avere e che aggiunge un trattamento di favore, quindi un elemento particolaristico”, sottolinea la professoressa.
Secondo Granaglia, la genesi dell’agevolazione fiscale che ha un controvalore annuo stimato in circa 1 miliardo di euro in termini di mancate entrate, è sì legata al decreto produttività come sottolineano i suoi estimatori, ma ha in seno anche i prodromi di un supporto pubblico allo sviluppo del welfare privato. “Noi sappiamo da sempre che il welfare italiano è un sistema con buchi, un sistema categoriale, un sistema frammentato anche se c’è il Servizio sanitario nazionale universalistico – riprende -. Mi sembra che dietro molte difese del jobs act c’era l’idea di avere più universalismo, invece questa è una politica che aggiunge trattamenti di favore per alcuni soggetti che sono impiegati in imprese che permettono loro l’accesso a queste forme di welfare. In un momento come questo di austerità finanziaria, poi, io vedo abbastanza forte il rischio di perdita di risorse anche per il welfare pubblico”. Dove ormai si manifestano forme di “privatizzazione implicita” che vanno oltre la classica riduzione degli investimenti. Il caso della legge 104 a favore di disabili e dei loro familiari è forse emblematico: “Non si tagliano le risorse, ma si rende più difficile l’accesso e le persone rischiano di morire prima di riuscire ad avere un sostegno per la non autosufficienza”, precisa la professoressa.
La debolezza di chi rimane nel pubblico – Non solo. Per l’accademica “più si vanno a diffondere queste forme di sanità integrativa, più si indebolisce la voce di chi rimane all’interno del servizio pubblico”. Soprattutto se c’è sostituzione invece di integrazione come dovrebbe essere, ma come sembra non sia. Tesi respinta in toto da Leonardi per il quale i servizi di welfare offerti dal decreto produttività sono complementari non sostitutivi di quelli pubblici, cioè offrono delle cose in più, non vanno in concorrenza. “Questo sistema non spiazza il servizio pubblico e anzi porta l’Italia più vicina ai Paesi europei”, sostiene Leonardi rimarcando che al centro della norma c’è la produttività, non la sanità quindi il “dibattito è fuorviante”. I fondi sanitari integrativi, ribatte, sono un piccolissimo pezzettino del welfare offerto dalla legge che ha un rapporto infinitesimale con la sanità: “Non c’è nessun legame possibile tra la sanità e il miliardo”, dice ancora il consigliere di Palazzo Chigi, sottolineando che “i fondi sanitari integrativi prendono i soldi dai contratti nazionali non da queste cose qui”.
Tuttavia secondo Granaglia, però, al di là delle quantità quello conta è il principio dell’equità che qui viene intaccato. “Il punto è che se le prestazioni di welfare rispondono a bisogni fondamentali di tutti, vanno assicurate a tutti, se invece non le si reputa importanti perché sono un di più o le si reputa importanti, ma per vincolo di bilancio non si hanno le risorse per erogarle a tutti – dice -, allora non vanno sussidiate con la spesa pubblica, vanno lasciate alla disponibilità e alla scelta individuale di pagarle. Senza obbligare altri contribuenti a contribuire a prestazioni che vanno a terzi non beneficiandone loro stessi. Non vedo perché la collettività debba pagare, anche poco, per cose che ad alcuni sono garantite e ad altri no”.
Il punto di non ritorno e il caso americano – Secondo Granaglia una politica pubblica a sostegno del welfare privato ha delle altre controindicazioni. Persino quando prova semplicemente a sviluppare dei fondi con funzione integrativa e non sostitutiva delle prestazioni pubbliche. “Il rischio è che quando noi creiamo integrazione dove ci sono dei buchi pubblici forti, come la non autosufficienza, se iniziamo a favorire i fondi privati di fatto favoriamo gruppi di interesse privati, quindi grandi assicurazioni, società di intermediazione di servizi che già vediamo pullulare, se si vuole trasformare nel tempo questo integrativo in un servizio veramente universale, il rischio è che questi gruppi d’interesse che hanno avuto modo di lavorare nel sistema di welfare integrativo abbiano la capacità di esercitare delle posizioni di interesse che influenzano le decisioni pubbliche, ostacolando la trasformazione in senso universalistico di queste prestazioni”, sostiene. E a supporto della sua tesi chiama in causa il caso americano: “I dati per gli Usa sono assolutamente forti: se metti su un sistema che favorisce gli interessi concentrati, quando lo vuoi cambiare ed estendere, il rischio è quello di una grande minaccia”. Da non trascurare, infine, le forme di “privatizzazione implicita” che vanno oltre la classica riduzione degli investimenti. Il caso della legge 104 a favore di disabili e dei loro familiari è forse emblematico: “Non si tagliano le risorse, ma si rende più difficile l’accesso alle risorse e le persone rischiano di morire prima di riuscire avere un sostegno per la non autosufficienza”, sottolinea Granaglia.
E pensare che, invece, secondo il sindacato, se il governo decidesse di investire in sanità, ci potrebbero essere ritorni importanti sia in termini economici che di benessere della popolazione. Secondo un’indagine della Cgil, presentata lo scorso 5 luglio, il Servizio Sanitario Nazionale nel garantire il diritto alla salute e alle cure è anche “un eccellente investimento economico”: la filiera della sanità vale infatti oltre 150 miliardi e per ogni euro speso in sanità si generano 1,7 euro circa. Insomma, tornare ad investire, potrebbe essere un’affare conveniente per i conti pubblici e per tutti i cittadini.