Niccolò, Riccardo ed Elia sono un ingegnere biomedico, un biologo e un tecnologo alimentare che hanno creato il prototipo 3Bee. "Via via che lo sviluppavamo, anche grazie al crowdfunding, abbiamo capito che quella semplice idea poteva rivoluzionare il settore dell’apicoltura. Perché frenare la riduzione delle api è fondamentale per la nostra vita"
Che succede quando agricoltura e tecnologia s’incontrano? Sulla carta sembrerebbe un matrimonio impossibile, ma in realtà le cose non stanno così. Il segreto sta nel trovare la formula giusta. Ci sono riusciti Niccolò Calandri, Riccardo Balzaretti ed Elia Nipoti, tutti originari della provincia di Como e sotto i trent’anni, con il loro alveare 3.0, ribattezzato 3Bee. Le loro storie sono diverse – Niccolò è laureato in ingegneria biomedica ed elettronica, Riccardo in biologia, mentre Elia è tecnologo alimentare -, ma li accomuna una grande passione per la campagna e per la tecnologia.
“Dopo la laurea ho vinto una borsa di studio per il dottorato all’estero e per un anno e mezzo ho vissuto tra il MIT di Boston e un centro di ricerca di Sidney. Poi ho capito che quella della ricerca non era la mia strada”, racconta Niccolò. Un’esperienza che comunque ricorda con entusiasmo: “Lavorare lì è stato bellissimo, è un mondo pieno di possibilità – sottolinea -, non ci sono orari prestabiliti, né chiavi, puoi andare quando vuoi. L’unica cosa che conta è l’impegno”. Ma quando ha ricevuto la proposta di restare per un PhD, ha preferito dire di no: “Quando sono tornato in Italia per discutere la tesi di dottorato ho capito che era tempo di dare una svolta netta alla mia carriera – ricorda -, così ho parlato con Riccardo, che è anche un apicoltore, e insieme abbiamo deciso di buttarci in questa avventura, senza alcuna garanzia di successo”.
Il progetto 3Bee è nato nella sua vecchia camera da letto: “L’abbiamo trasformata in un laboratorio di elettronica all’avanguardia, anche grazie ai soldi raccolti con il crowdfunding – spiega -, e via via che sviluppavamo il prototipo abbiamo capito che quella semplice idea poteva rivoluzionare il settore dell’apicoltura”. Questo alveare hi-tech, infatti, si pone come obiettivo quello di fermare la drastica riduzione delle api in modo semplice ed efficiente: “Il concetto si basa sull’analisi dei dati biologici attraverso dei sensori elettronici specifici che misurano la temperatura, l’umidità, il suono e gli odori – spiega -, i parametri vengono poi elaborati dal computer, in modo da prevedere bisogni, malattie e necessità delle api”. Quella di Niccolò, Riccardo ed Elia è una risposta intelligente a un problema sottovalutato: “Quello che spesso ci dimentichiamo è che senza questi insetti si riduce drasticamente anche la produzione di frutta e verdura, per cui salvaguardarli è fondamentale”, sottolinea.
Il dispositivo è stato studiato per essere alla portata di tutti gli apicoltori, giovani e meno giovani: “All’inizio pensavamo che il nostro target fossero i cosiddetti urban beekeeper, più avvezzi alla tecnologia – ricorda -, invece ci sbagliavamo di grosso perché molte delle richieste di acquisto, test e sperimentazione sono arrivate dai professionisti del settore”. Insomma, anche lo zoccolo duro ha risposto positivamente: “Assolutamente sì, ci hanno dato feedback e consigli e ci hanno invitato a tenere numerosi seminari e conferenze in giro per l’Italia – racconta -, e tutto questo ci fa essere fiduciosi per il futuro”.
Anche se all’inizio le difficoltà non sono mancate: “Venendo tutti dall’ambito universitario abbiamo dovuto imparare da zero a fare impresa – ricorda -, è stato un cambio di prospettiva radicale”. Senza contare i rifiuti ricevuti: “Abbiamo preso tante porte in faccia, ma ora finalmente abbiamo trovato un investitore che crede nel nostro progetto”, spiega. A oggi sono stati costruiti sessanta prototipi e il numero è destinato a crescere: “Ora il prossimo step sarà quello di appoggiarci a un supporto esterno per riprodurre il sistema in scala e distribuirlo anche in Europa”. Da quell’anno e mezzo all’estero Niccolò si è portato dietro il meglio: “Ho preso il loro modo di lavorare e l’ho portato in Italia, nella nostra azienda”, conclude.