Vincenzo Scarantino

Il primo quesito lo pongono i giornalisti ai magistrati subito dopo l’arresto di Scarantino ed è abbastanza ovvio: è normale che la mafia si affidi a un balordo per compiere una strage importante come quella di via d’Amelio? “Non ci siamo posti la domanda. I fatti, secondo noi, si sono svolti in un certo modo, Scarantino non è uomo da manovalanza”, risponderà Gianni Tinebra, all’epoca procuratore capo di Caltanissetta. È il 29 settembre del 1992, dalla strage di via d’Amelio sono trascorsi appena settantuno giorni e il colpevole era già stato “scelto”: era, appunto, Scarantino. “Un’offesa alla nostra intelligenza”, lo definirà più volte l’avvocato Rosalba Di Gregorio. L’infimo livello culturale del balordo della Guadagna era fin troppo evidente già subito dopo l’arresto per fare anche solo ipotizzare che Cosa nostra avesse affidato ad un simile soggetto un incarico tanto importante. La situazione peggiora quando il giovane diventa addirittura un collaboratore di giustizia e inizia a lanciare accuse che fanno scattare arresti a raffica.

“Ma a questo come gli date ascolto?Attenzione, state attenti: è falso, non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo. A questo qua queste parole gliele hanno messe in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta ripetendo”, dirà di Scarantino un pentito di rango come Salvatore Cancemi, durante un confronto davanti ai magistrati. I verbali di quel confronto non saranno resi disponibili agli avvocati, mentre Scarantino a ritrattare ci ha provato più volte: con un’intervista telefonica a un giornalista di Studio Aperto nel 1995, e addirittura in aula, a Como, durante un’udienza del Borsellino bis nel 1998. Niente da fare però: mentre il balordo confessa tra le lacrime la sua impostura, i giudici di ben tre processi (Borsellino 1, 2 e 3) e in tutti e tre i gradi di giudizio metteranno il bollo sulla sua autenticità.

“Sono stato usato come un orsacchiotto con le batterie costretto con le minacce a prendere in giro lo Stato, in galera ho mangiato anche i vermi, le guardie mi dicevano che mentre ero in carcere mia moglie andava a battere, e facevano allusioni al suicidio di Gioè”, dirà anni dopo, raccontando per l’ennesima volta le violenze subite: “Io non sapevo neanche dov’era via D’Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame”. 

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