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La verità di Spatuzza 10 anni prima: ma nessuno fece niente - 8/8

A un quarto di secolo dal 19 luglio del 1992 sono quattro i processi celebrati per fare luce sull'assassinio del magistrato palermitano e dei cinque uomini della scorta. Eppure ancora oggi rimangono molteplici gli interrogativi che non hanno mai ricevuto una risposta: dalle modalità del depistaggio, a chi lo ha condotto, al motivo per cui sono state depistate le indagini. E poi la scomparsa dell'Agenda rossa, l'ipotesi sul coinvolgimento di soggetti esterni a Cosa nostra, l'accelerazione del progetto di morte eseguito solo 57 giorni dopo l'omicidio di Giovanni Falcone
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La verità di Spatuzza 10 anni prima: ma nessuno fece niente

Gaspare Spatuzza 

La scomparsa dell’Agenda rossa, il depistaggio, gli autori, il movente: la storia di via d’Amelio è in pratica un puzzle dal quale mancano ancora tante, troppe tessere. E dire che alcune sarebbero potute andare al proprio posto prima, molto prima che i giudici condannassero all’ergastolo degli innocenti. Già dieci anni prima di diventare formalmente un collaboratore di giustizia, infatti, Gaspare Spatuzza aveva raccontato a Piero Grasso che la storia della strage di via D’Amelio raccontata da Scarantino, era una bugia. È il 26 giugno del 1998 e l’allora procuratore nazionale antimafia, Pierluigi Vigna, va a trovare Spatuzza nel carcere dell’Aquila insieme al suo vice, che era all’epoca Grasso. In gergo si chiamano colloqui investigativi: gli inquirenti incontrano boss mafiosi per sondare una loro disponibilità a collaborare e acquisire informazioni utili alle indagini ma inutilizzabili durante un processo. Non si sa quanti furono gli incontri tra Vigna, Grasso e Spatuzza ma da quel verbale nel carcere dell’Aquila si evince che altri colloqui erano stati già svolti. È già in quell’occasione, però, che il killer di Brancaccio scagiona totalmente Scarantino e gli altri.

“Scarantino in questa cosa che cosa che c’entra?”, chiede Grasso. “Non esiste completamente“, risponde Spatuzza. “E scusi, com’è che allora le cose che lui ha detto che sa?”, è la replica del pm. “Lui era a Pianosa – spiega Spatuzza – ha ammazzato un cristiano che doveva ammazzare, e ci ficiru diri chiddu ca nu avia adiri (gli hanno fatto dire quello che doveva dire ndr)”. Poi il killer fa un nome: “Toto La Barbera“. Come abbiamo visto i La Barbera coinvolti nell’inchiesta su via d’Amelio sono almeno due: il questore Arnaldo, e il poliziotto Salvatore, indagato e archiviato a Caltanissetta proprio per la gestione del falso pentito. In quell’occasione, però, né Grasso e nemmeno Vigna chiedono a Spatuzza a quale La Barbera si riferisse. Le informazioni raccolte durante quel colloquio investigativo, in pratica, avrebbero potuto neutralizzare in diretta il depistaggio sulla strage Borsellino ma nessuno nel breve periodo fece nulla: non la procura nazionale Antimafia e nemmeno quella di Caltanissetta. “Certo a leggere oggi quel verbale qualche rammarico viene. Forse se si fosse battuto più su questa strada alcune cose sarebbero venute fuori tempo fa e la verità su persone innocenti sarebbero emerse prima”, ha commentato l’ex procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari. Quel documento infatti è rimasto segreto fino al 2013, quando Il Fatto Quotidiano lo pubblica: essendo un colloquio investigativo non aveva valore processuale ma la procura di Caltanissetta lo ha inserito per errore all’interno del fascicolo del pm, cioè tra le carte accessibili agli avvocati. E infatti Flavio Sinatra, legale di Madonia e Tutino, se ne accorge e chiede l’ammissione del documento agli atti del processo. Richiesta rigettata nel 2013 e autorizzata soltanto quattro anni dopo. Quando sono ormai trascorsi vent’anni da quella volta in cui Spatuzza raccontò la verità su via d’Amelio quasi in diretta. Ma nessuno mosse un dito.

Twitter: @pipitone87

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