Non sarà un modesto aumento degli aiuti all’Africa a fermare i flussi migratori. Peraltro da quell’area gli arrivi sono assai meno ingenti di quelli avvenuti negli anni da altre regioni. E senza dimenticare che abbiamo bisogno del lavoro degli immigrati.

di Maurizio Ambrosini (Fonte: Lavoce.info)

Migranti e povertà

Il rapporto tra migrazioni, povertà e sviluppo è più complesso e forse sorprendente di quanto si pensi. Lo slogan “aiutiamoli a casa loro” è tornato alla ribalta nel dibattito pubblico, perché è un’idea semplice, accattivante, apparentemente molto logica. È però superficiale.

Prima di tutto, presuppone che l’emigrazione sia provocata dalla povertà, ma gli immigrati non arrivano dai paesi più poveri del mondo (in Italia sono prevalentemente europei, donne, provenienti da paesi di tradizione cristiana) e non sono i più poveri dei loro paesi: per emigrare occorre disporre di risorse. Questo vale anche per i rifugiati. I più poveri di norma fanno poca strada e non potrebbero farne di più. Per esempio si urbanizzano, più che dirigersi verso l’Europa. Se gli immigrati non arrivano dai contesti più poveri, per promuovere alternative all’emigrazione dovremmo aiutare i paesi in posizione intermedia sulla base degli indici di sviluppo anziché quelli più bisognosi, le classi medie anziché quelle più disagiate, gli ambienti urbani più di quelli rurali.

In secondo luogo, gli studi sull’argomento mostrano che, in una prima fase, lo sviluppo fa aumentare la propensione a emigrare, perché cresce il numero delle persone che dispongono delle risorse per partire. Le aspirazioni a un maggior benessere aumentano prima e più rapidamente delle opportunità locali di realizzarle. Solo in un secondo tempo le migrazioni rallentano, finché a un certo punto il fenomeno s’inverte: il raggiunto benessere fa sì che i paesi che in precedenza erano luoghi di origine di emigranti diventino luoghi di approdo di immigrati. Così è avvenuto in Italia, ma abbiamo impiegato un secolo a invertire il segno dei movimenti migratori, dalla prevalenza di quelli in uscita al primato di quelli in entrata.

Il ruolo delle rimesse

L’emigrazione non è facile da contrastare neppure con generose politiche di sostegno allo sviluppo, anche perché un altro fenomeno incentiva le partenze e la permanenza all’estero delle persone: le rimesse degli emigranti, ossia il denaro che inviano in patria, essenzialmente alle loro famiglie. Si tratta di 586 miliardi di dollari nel 2015, 616 nel 2016 (Banca Mondiale). L’andamento italiano è più altalenante, ma nel 2014 ha registrato l’invio di 5,3 miliardi di euro (Caritas e Migrantes, 2016). A livello macro, 26 paesi del mondo hanno un’incidenza delle rimesse sul Pil che supera il 10 per cento.

A livello micro, le rimesse arrivano direttamente nelle tasche delle famiglie, saltando l’intermediazione di apparati pubblici e imprese private. Sono soldi che consentono di migliorare istruzione, alimentazione, abitazione dei componenti delle famiglie degli emigranti, in modo particolare dei figli, malgrado abbiano anche effetti negativi. I critici osservano che le rimesse alimentano uno sviluppo drogato e dipendente dall’esterno, favorendo tra l’altro nuove partenze. Difficile negare però che le rimesse non allevino i disagi e non migliorino le condizioni di vita delle famiglie che le ricevono.

Il sostegno allo sviluppo dovrebbe dunque realizzare rapidamente alternative per competere con la dinamica propulsiva del nesso emigrazione-rimesse-nuova emigrazione, il che però nel breve periodo è praticamente impossibile.

Dunque, le politiche di sviluppo dei paesi svantaggiati sono giuste e auspicabili, la cooperazione internazionale è un’attività encomiabile, produttrice di legami, scambi culturali e posti di lavoro su entrambi i versanti del rapporto tra paesi donatori e paesi beneficiari, ma subordinare tutto questo al controllo delle migrazioni è una strategia di dubbia efficacia, certamente improduttiva nel breve periodo, oltre che eticamente discutibile. Di fatto, gli aiuti in cambio del contrasto delle partenze significano finanziare i governi affinché usino le maniere forti per impedire l’emigrazione dei loro giovani cittadini alla ricerca di un futuro migliore, oppure fermino il transito di migranti e persone in cerca di asilo provenienti da altri paesi: l’Unione europea ha recentemente premiato il Niger per questo discutibile motivo.

Da ultimo, il presunto buon senso dell’“aiutiamoli a casa loro” dimentica un aspetto di capitale importanza: il bisogno che le società sviluppate hanno del lavoro degli immigrati. Basti pensare alle centinaia di migliaia di anziani assistiti a domicilio da altrettante assistenti familiari, dette comunemente “badanti”. Secondo una ricerca promossa dal ministero del Lavoro, 1,6 milioni di immigrati lavorano in vario modo al servizio delle famiglie italiane.

Se i paesi che attualmente esportano queste lavoratrici verso l’Italia dovessero conoscere uno sviluppo tale da inaridire le partenze, non cesserebbero i nostri fabbisogni. In mancanza di alternative di cui per ora non si vedono neppure i presupposti, andremmo a cercare lavoratrici disponibili in altri paesi.

Come si vede, non sarà un modesto aumento degli aiuti all’Africa a fermare flussi migratori che peraltro da quell’area sono molto visibili e mediatizzati, ma assai meno ingenti di quelli arrivati negli anni da altre regioni del mondo.

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