I giudici hanno condannato in via definitiva il comandante della nave da crociera a 16 anni di carcere. Aveva "l’obbligo e il potere di impedire l’evento", è il lapidario riassunto dei giudici sul naufragio e la morte di 32 passeggeri. E rinunciò "a esercitare i suoi doveri di coordinamento delle operazioni, nonostante le sollecitazioni" della Capitaneria di porto. "Si allontanò dalla plancia senza neppure prendere con sé una radio con cui comunicare con l’equipaggio", sottolinea la Cassazione
Un comportamento “diligente” avrebbe avuto “una portata salvifica”, mentre Francesco Schettino non osservò il “livello di diligenza, prudenza e perizia” che bisognava avere la sera del 13 gennaio 2012, prima e durante il naufragio della Costa Concordia davanti all’isola del Giglio. È quanto afferma la Cassazione nella sentenza con la quale il 12 maggio ha condannato in via definitiva a 16 anni il comandante nella nave da crociera che viaggiava con 4mila persone a bordo. Aveva “l’obbligo e il potere di impedire l’evento”, è il lapidario riassunto dei giudici sul naufragio e la morte di 32 passeggeri.
Ritardi hanno avuto rilievo causale – Schettino, ora recluso nel carcere di Rebibbia, mentre la Concordia iniziava ad affondare avrebbe dovuto dare l’allarme di emergenza generale “alle 21.50 o al più tardi alle 22”, ovvero quando fu comunicato in plancia che il locale dei motori elettrici era allagato. Invece temporeggiò e il ritardo nella segnalazione e nell’ordinare l’ammaino delle scialuppe “ha assunto un evidente rilievo causale” nella morte dei passeggeri. “Dopo l’impatto – scrivono i giudici citando quanto accertato nei giudizi di merito – l’inclinazione della nave fu progressiva e non immediata, la velocità si riduceva di minuto in minuto, le scialuppe potevano essere tempestivamente calate”.
“Era tutt’altro che ignaro della rotta” – Il comandante, inoltre, intendeva “puntare verso l’isola ed avvicinarsi per il saluto programmato“, come da lui stesso ammesso, “era tutt’altro che ignaro della rotta tenuta dalla nave”, impartiva ordini sulla manovra, ordinando di procedere “con timone alla mano”, e quando assunse formalmente il comando avrebbe potuto ripristinare la rotta programmata. E in ogni caso “gli errori e le omissioni attribuiti ad altri ufficiali non furono in alcun modo decisivi, né tanto meno tali da ingannare il comandante sullo stato della navigazione”.
Negligente nel dare ordini – La Cassazione concorda con i giudici di merito: Schettino violò “numerose precise regole di corretta navigazione” e anche “gli errori attribuiti al timoniere Rusli Bin furono in larga parte indotti dallo stesso Schettino e dalle sue concitate modalità di impartire gli ordini in rapida sequenza”. Ne diede sei, a raffica, come scritto nella sentenza d’Appello, in appena 32 secondi poco prima dell’impatto con lo scoglio. E in quelle fasi delicate, sottolineano i giudici, agì poi con “negligenza”, perché pure rendendosi conto della scarsa dimestichezza con l’italiano e l’inglese del timoniere “si avventurava in una manovra rischiosa senza procedere alla sostituzione”.
Latitanza gestionale nei soccorsi – Sul capitolo legato alla soccorsi e alla fuga, afferma la Cassazione, il comandante aveva la “consapevolezza, una volta allontanatosi dalla nave, che a bordo vi erano ancora persone presenti”. Ed evidenzia la “latitanza gestionale” perché Schettino “si allontanò dalla plancia senza neppure prendere con sé una radio con cui comunicare con l’equipaggio” così “dando prova della sua rinuncia a esercitare i suoi doveri di coordinamento delle operazioni”. E “nonostante le sollecitazioni a tornare a bordo per coordinare i soccorsi”, più volte incitato dal comandante Gregorio De Falco della Capitaneria di porto con il famoso “vada a bordo, cazzo”, rimase sugli scogli della Gabbianara pur avendo l’obbligo di “affrontare il pericolo incombente sulle persone a bordo, fino a quando l’esercizio del comando abbia concreta utilità”.
Nessuno sconto per più motivi – Non merita le attenuanti, spiegano sempre i giudici, a causa dei 32 morti e delle oltre 193 persone ferite, “molte delle quali costrette a vivere esperienze assolutamente drammatiche, sconvolgenti, inenarrabili”, dei “gravissimi danni causati all’ambiente, in un tratto di mare di eccezionale pregio”, degli “ingentissimi danni patrimoniali”. Al quale si aggiunge, osserva la Cassazione, il comportamento processuale dell’imputato, inizialmente “ammissivo”, poi di tutt’altro tenore.