La vita rimasta fuori, quella dentro che va avanti a tentoni, la politica e le scelte di lotta che dietro le sbarre si fanno a volte deboli come fantasmi, altre diventano la sola ragione di esistere. C’è una storia di militanza che, dal 1975 al 1986, è stata scritta dai suoi prigionieri chiusi nelle carceri italiane: sono lettere, fatte di dolore e rabbia, di debolezza e sconfitte e poi di illusioni, sono state raccolte per la prima volta nel libro Visto Censura – Lettere di prigionieri politici in Italia (1975-1986) (Edizioni Bébert) e raccontano un’altra versione delle cose. “Se vai a Genova salutami il mare”, scrive Beppe Battaglia che di anni in gabbia ne farà venti. Il suo “magone” è non poter fare una passeggiata notturna a Nervi. Scrive a V. in un pomeriggio di luglio: “Vecchio mio, parlando di ideologia, non è forse stata una delle nostre inculate? Il mondo è fatto di cose reali prima ancora che d’idee”. C’è tutto questo in Visto Censura: racconti di pomeriggi a fissare soffitti, di camminate in dieci metri quadri, di vite rimesse in discussione e mai fino in fondo.
Il testo, pubblicato a inizio febbraio 2017, mette insieme lettere inedite di militanti di organizzazioni armate di sinistra e lo fa per la prima volta in Italia. La Bébert, piccola casa editrice bolognese, ha messo in piedi un prezioso lavoro di curatela, coadiuvata da 3 ricercatori poco più che trentenni: Lorenzo De Sabbata, storico dell’EHESS di Parigi; Simone Santorso, docente di criminologia all’università di Hull, nel Regno Unito, e Giulia Fabini, collaboratrice in Criminologia all’università di Bologna. Per trovare una raccolta simile bisogna tornare alle Edizioni Paoline del 1989: Eravamo terroristi: lettere dal carcere di Carmelo Di Giovanni. Ma l’obiettivo di quelle pagine era essere testimoni di una redenzione. Visto Censura fa una cosa diversa e lo fa per la prima volta: racconta un processo di rielaborazione psicologica dell’esperienza e lo fa senza (troppe) intromissioni. “Il clima plumbeo”, scrive De Sabbata, “spinge alcuni gruppi di prigionieri politici a rifiutare la dicotomia pentitismo\continuazione della lotta, riconoscendosi in un’idea di desistenza, che coniughi distacco dalla violenza e rifiuto dalla collaborazione”. Sono lettere che permettono di aprire una finestra su momenti interiori che vanno oltre il semplice pentimento. “Siamo di fronte a documenti ibridi che sfuggono a ogni classificazione e svelano aspetti complessi di una coesistenza, quella tra personale e politico, che ha caratterizzato profondamente una militanza totalizzante come quella armata e, in maniera forse maggiore, un’esperienza come quella della detenzione politica”.
In totale ci sono 7 documenti e 79 epistole, divise per tre grandi temi: affettività, carcere e politica. Gli archivi sono quelli personali del brigatista Loris Tonino Paroli e di Vincenzo Solli. Quest’ultimo è tra gli ideatori della rivista Soffione Bora (Lu) Cifero che nacque nel 1982 sulle colline reggiane: raccoglieva i componimenti poetici e letterari dei brigatisti in carcere che venivano inviate ogni giorno alla casella postale 271. L’introduzione del numero zero fu di Renato Curcio che, però, si volle firmare “alcuni compagni detenuti a Palmi”. Quasi non si può dire, ma lo scrivere diviene una terapia. “Ciao bella gente di periferia”, scrive Agrippino Costa nel 1983 mentre è detenuto a Fossombrone. “Come va nel vostro universo? Qui implode (come sempre) mentre esplode il mio cervello…oggi… in un pomeriggio che sembra un inno alla vita. Così la ferita riprende a sanguinare senza sosta e io cerco di suturarla galoppando con la fantasia in spazi ideali”. Sono righe personali, di travagli interiori e lunghe ore ad ascoltare la mente cambiare e cedere.
Inizia con la sfera emotiva dimenticata nelle pagine di storia, ma il libro vuole anche e soprattutto parlare della detenzione e di come è cambiata con l’introduzione delle carceri speciali. Come scrive Montorsi, nelle lettere i detenuti politici definiscono le carceri come campi, ovvero le paragonano ai lager nazisti. La corrispondenza verso l’esterno è uno dei loro pochi modi per comunicare all’esterno le condizioni di vita dietro le sbarre. Le lettere che non arrivano, le informazioni limitate e lo scrivere con la consapevolezza di essere sotto controllo ad ogni virgola. Il 23 luglio del 1977, Loris Tonino Paroli manda una epistola dall’Asinara: “Carissimi, scrivo solo a voi in quanto nell’impossibilità materiale di scrivere ad altri. (…) Qui mi trovo allo stato selvaggio”. Poi ancora il 31 luglio dello stesso anno: “Ho ricevuto la vostra lettera con la quale mi accorgo che non avete ricevuto le mie (…). Qui la situazione è alquanto pessima, sono finito effettivamente nel primo campo di concentramento italiano, ma peggio ci sono gli aspetti peggiori di un carcere e gli aspetti peggiori di un campo di concentramento”. I problemi raccontati riguardano la vivibilità delle celle, il fatto di non avere contatti con l’esterno e in molti casi di aver subito il ritiro di tutti gli effetti personali. “Questa baracca ha le dimensioni del tuo garage, vi sono quattro celle, siamo in celle 4,10×2,30, il gabinetto occupa un angolo, è totalmente scoperto, appena riparato da una spalliera di mezzo metro, insomma quando uno caga deve farsi vedere e far sentire la propria puzza, il tutto chiusi ermeticamente con poca luce che si perderà anche la vista e poca aria che entra, per 21 ore al giorno. (…) A volte pare proprio di essere un maiale che aspetta nella stalletta due volte al giorno che gli portino da mangiare. (…) Non c’è dubbio i nostri governanti non cambiano di una virgola come sostanza dal fascismo”. Paroli chiede ai suoi interlocutori di non andare a trovarlo “per l’enorme costo del viaggio” e per le enormi “difficoltà burocratiche”. “Fareste un viaggio a vuoto”, scrive. Nelle lettere ci sono le descrizioni delle rivolte, ma anche le confessioni amare di chi accetta la fine della lotta armata e si “arrende di fronte ai nemici di sempre”. Così il 28 giugno 1986, sempre Battaglia scrive da Cuneo per annunciare di essere stato declassificato e di aver lasciato le carceri “speciali”: “Mi mancano i compagni. Questo però lo sapevo anche prima e nonostante la verifica che sto facendo, resto convinto d’aver fatto la scelta buona. Una strada un po’ amara ma che non comporta altri prezzi”.
Visto censura ha un valore in più per i lettori perché sceglie di dedicare una parte alla condizione della donna, che, come dichiarato dagli stessi autori “non è un discorso a margine”. Per parlare di repressione e disciplina di quegli anni, la condizione femminile deve rientrare tra i temi importanti da toccare. Questo perché, come spiega Fabini, negli anni Sessanta si ha per la prima volta “l’entrata di un gran numero di soggetti politicizzati femminili”. E’ una popolazione “residuale” (4-5 per cento del totale) e per questo vittima di una mancanza di servizi, ma anche una popolazione vittima di pregiudizi: la donna criminale viene considerata una sviata che deve fare un percorso di redenzione (e quindi molto spesso le strutture sono gestite dalle suore). La donna terrorista distrugge gli schemi perché, di solito, è scolarizzata e ha un livello intellettuale superiore alla media. Quindi fa ancora più paura. Scrive C.S. da Latina il primo giugno 1984: “Qui ci sono due bimbe. Qualche tv potrebbe farci uno scoop incredibile se riuscisse a riprendere le terroriste irriducibili mentre giocano al ‘giro tondo’ all’aria!”. Le detenute politiche lamentano i danni alla salute e una repressione che va verso l’annullamento in tanto che donne, ma anche come madri. Nel documento che producono nel 1984 da Voghera si legge: “Condannare una donna di 30 anni a più di 10 anni di carcere, così come è concepita la pena oggi, significa anche condannare quella donna a non essere madre”.
Settantanove epistole non bastano per raccontare un pezzo della storia di Italia, ma di sicuro lo fanno con documenti originali che fino a questo momento conoscevano solo i protagonisti. Non è tutta la verità, ma una delle sue versioni ancora sconosciute. Arialdo Lintrani, il 16 giugno del 1985 da Bergamo scrive: “La storia è un po’ come la vita: non è mai come vorremmo che fosse e certamente non coincide con i nostri sogni”.