Alla luce della mia lunga esperienza di insegnamento a Rebibbia, credo di poter dire qualcosa su alcuni aspetti salienti del rapporto docente-discente che in carcere può prendere inclinazioni imprevedibili. Negli anni, abbiamo visto fior di delinquenti cambiare prospettive, appassionarsi a materie e argomenti per loro totalmente oscuri fino a quel punto della loro vita. L’ergastolano recita Shakespeare, il rapinatore studia tecnica bancaria, lo spacciatore va sui diagrammi cartesiani, l’ex analfabeta s’appassiona alla poesia o al diritto e si esibisce in citazioni in latino mal pronunciate.
Ovviamente si tratta di una minoranza: la maggior parte degli studenti si perde per strada, in una “dispersione scolastica” che qui è fatta di trasferimenti, spesso dovuti a motivi disciplinari o a nuovi processi, internamenti per problemi psichiatrici; quando va bene per accesso a misure alternative o, meglio ancora, uscita in libertà. Ma non è raro il caso di chi, una volta contagiato dal desiderio di conoscenza, tenti di proseguire in ogni modo il percorso di studio, dovunque vada a finire.
In sede di esami finali, trovandosi di fronte a una prova non più grave delle tante capitate nella vita precedente, ma del tutto inedita, li si vede tremare, entrare in ansia, perdere il sonno come “neanche quando m’hanno condannato a 18 anni de galera”. E si può assistere a catarsi meravigliose, come quella di quel nostro studente che quest’anno si è diplomato con una tesina sui Pink Floyd (toccando una corda a cui sono personalmente fin troppo sensibile) e facendo esami talmente brillanti da meritare i 100/centesimi e i complimenti del Presidente di commissione che ha dichiarato che uno studente così dovrebbe fare da modello per tutti i ragazzi liberi e che in tanti anni nelle scuole esterne non aveva mai visto una preparazione così approfondita.
O quell’altro, con trascorsi di tossicodipendenza, lui e la compagna e di riflesso il figlio – cui già nell’incubatrice dovevano somministrare metadone – passaggi nel centro di igiene mentale, lungo percorso detentivo. Per la preparazione degli esami viene ricoperto da così tante fotocopie e dispense che sbotta: “Ahe’, e io che credevo che ‘o più grosso incartamento possibile fosse quello dei miei processi: ‘na muntagna, professo’!” dice con la mano alta sopra il banco. Dopo momenti di tensione nei giorni precedenti, al punto da essere messo in isolamento, i risultati sono andati oltre ogni aspettativa.
Purtroppo le soddisfazioni dal punto di vista didattico (e umano, oltre che professionale, diciamolo) rischiano di essere sommerse dalle difficoltà che puntualmente si ripropongono a ogni fine anno scolastico. Superato lo stress di relazioni finali, chiusura dei registri, ultime riunioni plenarie nel clima infuocato di inizio estate, giungono puntuali le allarmanti notizie sui tagli delle spese all’istruzione: Moratti, Gelmini, Giannini … chiunque vada a ricoprire il ruolo di ministro si appiattisce sull’obiettivo dei risparmi, in una linea di continuità che supera ogni contrapposizione tra destra e sinistra (laddove ne sussistano).
Di fatto, si mettono in dubbio gli organici: classi ridotte, materie soppresse, orari ridotti. Chi ci rimette sono innanzitutto gli studenti, che vedono limitato il loro diritto all’istruzione, e in seconda battuta noi professori, sempre alle prese con il taglio del personale e la perdita del posto: lo spettro della “soprannumerarietà”.
Dopo tanti anni di lavoro in carcere, la nostra esperienza non viene valorizzata: invece, per esempio, potrebbe essere messa a frutto formando i nuovi “malcapitati” che si ritrovano catapultati nella realtà dell’insegnamento ai detenuti, senza alcun punto di riferimento certo. Così, invece di cominciare a pensare alle prospettive della pensione, come alla nostra età capitava alla generazione precedente fino a pochi anni fa, ci si prospetta di tornare a essere sballottati per istituti periferici della provincia in cerca di titolarità tra mandrie di adolescenti. Una nuova giovinezza!
Alla fine, ammesso che si riesca a ottenere nuovamente il proprio posto dopo un’estate trascorsa, com’è stato detto, più in convalescenza che in ferie, noi insegnanti non vediamo l’ora di superare le pastoie burocratiche di inizio anno, dal primo di settembre (altro che i tre mesi, in fin dei conti abbiamo 36 giorni come tutti gli statali), e finalmente tornare nelle nostre amate classi di delinquenti incalliti.