Il procuratore capo di Roma parla al Corriere della Sera e a La Repubblica. L'ex numero uno delle procure di Reggio Calabria e Palermo resta convinto della sua impostazione: "Attendiamo le motivazioni della decisione, anche perché noi ci siamo mossi nel solco tracciato da precedenti e successive sentenze della Cassazione"
Un giorno e una notte dopo la sentenza su Mafia capitale con il disconoscimento dell’aggravante mafiosa, pur confermata dalla Cassazione durante le indagini preliminari, il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, parla al Corriere della Sera e La Repubblica. La visione dei supremi giudici, che confermarono il 416 bis per alcuni indagati, per cui la “corruzione e rapporti politici sono forza intimidatrice” non è stata riconosciuta dai giudici della X sezione penale di Roma. Ma l’ex numero uno delle procure di Reggio Calabria e Palermo resta convinto della sua impostazione: “La sentenza ha riconosciuto la sussistenza di gravi fatti di violenza e corruzione. A Roma la mafia c’è”. Dalle parole del magistrato, in attesa delle motivazioni che dovrebbero essere depositate il 20 ottobre, si intuisce che la procura presenterà appello. “Io rifuggo da una visione agonistica dei processi, e comunque non mi sento sconfitto – dice agli intervistatori -. È crimine organizzato, noi andremo avanti”, “non si può accettare l’idea che a Roma la corruzione sia un fatto normale o addirittura utile. Attendiamo – prosegue – le motivazioni della decisione, anche perché noi ci siamo mossi nel solco tracciato da precedenti e successive sentenze della Cassazione. Inoltre in questi anni abbiamo dimostrato che a Roma la mafia c’è, a differenza di quanto sostenuto in passato, e non solo per via del riciclaggio, ma anche nella gestione del traffico di droga, dell’usura e altri fenomeni criminali”.
Su i due principali imputati Salvatore Buzzi, l’ex ras delle cooperative rosse condannato a 19 anni, e Massimo Carminati, l’ex Nar considerato il leader dell’organizzazione, Pignatone aggiunge: “Io stesso ho più volte sottolineato che era una organizzazione ridotta non in grado di condizionare il governo di Roma Capitale; la costruzione mediatica di quel presunto dominio non ci appartiene. L’abbiamo qualificata come associazione mafiosa e continuo a ritenere che quella costruzione fosse aderente alla realtà; se le motivazioni della sentenza non ci convinceranno del contrario faremo appello. Non mi sento responsabile – dice anche a Repubblica – dell’effetto mediatico dell’inchiesta e delle strumentalizzazioni politiche. Il problema di chiamare mafia gruppi locali c’è. Sulla Magliana ci sono state sentenze contrapposte”. Sul caso Odevaine, condannato al triplo della pena chiesta dalla Procura, Pignatone spiega: “Ha collaborato e avevamo chiesto una pena più lieve. La corte ha avuto una visione diversa ma chi aiuta va premiato”.
Il verdetto che giudiziariamente ha separato il mondo di sotto e il mondo di sopra ha scatenato anche le polemiche con la gara dei politici a commentare se è vero che la mafia c’è nella Capitale oppure no. “Non nascondo il dato negativo del mancato riconoscimento dell’associazione mafiosa, ma voglio ricordare i pronunciamenti favorevoli di un gip, del Tribunale del riesame e per due volte della Cassazione sulle nostre richieste, dunque gli imputati non erano detenuti per un insano desiderio della Procura. Inoltre dal punto di vista criminale Roma ha problemi altrettanto e forse più gravi della mafia, che pure esiste, come la corruzione e la criminalità economica. E la sentenza del tribunale ne è l’ulteriore dimostrazione. Il mio ufficio non è disposto ad accettare l’idea, purtroppo molto frequente, che la corruzione a Roma sia un fatto normale se non addirittura utile”.
Alla domanda se c’è qualcosa di cui pentirsi o se l’accusa di mafiosità sia stata una scommessa azzardata il magistrato risponde: “Le valutazioni politiche su quanto è emerso dalle nostre indagini non le abbiamo fatte noi, né io posso essere chiamato a rispondere se qualcuno ha voluto utilizzarle politicamente. Quando mi è stato chiesto un parere sullo scioglimento del Consiglio comunale, l’ho qualificata come una “piccola mafia” che non solo non era in grado di dominare sulla città, come qualcuno s’è spinto a sostenere, ma era stata molto depotenziata, se non smantellata, dai provvedimenti dei giudici. Non è stata una scommessa, perché non si scommette con la libertà delle persone. La nostra accusa rappresentava un momento molto avanzato nell’interpretazione del rapporto mafia-corruzione, ma sempre seguendo la indicazioni fornite dalla Cassazione nell’ultimo decennio”. E infine: “I processi hanno le loro dinamiche, vedremo in questo caso come si evolverà. Ma una sentenza, per quanto importante, non può far cadere nel nulla anni di indagini e provvedimenti di altri giudici”.