Le giornate di memoria per ricordare la strage di Via D’Amelio e il sacrificio degli uomini che quel giorno persero la vita sono evidentemente meno raccontate e pubblicizzate rispetto a quelle del 23 maggio. Sicuramente per il carattere meno sfarzoso ma, altrettanto sicuramente, anche per la scomodità di ciò che viene denunciato al loro interno. Questa volta, nonostante il valore simbolico del venticinquesimo anniversario, non è andata diversamente.

Ma quest’anno è accaduto un evento, a mio modesto parere, senza precedenti, che ho il dovere e l’onore di far conoscere a quante più persone possibili. Quest’anno non si è soltanto spiegata (grazie agli interventi degli avvocati Fabio Repici e Calogero Montante, rispettivamente legali di Salvatore Borsellino e di Enzo Scarantino) l’importanza della storica sentenza del processo Borsellino Quater, che ha confermato per la prima volta in venticinque anni il depistaggio delle indagini sulla strage.

Il piccolo palco di Via D’Amelio ha accolto anche le testimonianze di quei familiari delle vittime di mafia che, per loro sfortuna, si sono ritrovati accomunati, oltre che dal dolore per la perdita dei loro cari, dalla vergognosa inerzia di uno Stato che, in alcuni casi, è arrivato addirittura al depistaggio delle indagini. E allora abbiamo sentito i familiari di Agostino Catalano e di Claudio Traina, poliziotti di scorta a Paolo Borsellino, chiedere allo Stato, ai media e ai cittadini di prendersi le proprie responsabilità; Gianluca e Angela Manca, fratello e mamma di Attilio Manca, giovane urologo il cui omicidio è ancora assurdamente classificato, dalla procura di Viterbo, come suicidio; Augusta e Vincenzo Agostino, i genitori di Nino Agostino, che aspettano un processo per l’omicidio del figlio poliziotto e della nuora incinta da ben ventotto anni; Stefano e Nunzia Mormile, fratello e sorella di Umberto, educatore carcerario ucciso dalla ‘ndrangheta ventisette anni fa, che ancora attendono che venga tolto qualsiasi dubbio circa il vero movente dell’omicidio, verosimilmente legato ai presunti contatti illegalmente avvenuti in carcere tra uomini dei Servizi e il boss Papalia; Paola Caccia, figlia del giudice Bruno Caccia, primo magistrato assassinato dalle mafie fuori dalla Sicilia, che dopo ben trentaquattro anni ancora chiede alla Procura di Milano di indagare sui reali motivi dietro la morte del padre. E, naturalmente, Salvatore Borsellino, che dal 2007 denuncia le complicità dello Stato nella morte del fratello e nell’occultamento della ormai – grazie a lui – famosa agenda rossa.

Per la prima volta queste famiglie abbandonate dallo Stato, che fino a ieri hanno combattuto una battaglia solitaria assieme al loro avvocato, si sono rese conto di essere unite da qualcosa di più del dolore e della ricerca solitaria della verità. Ascoltando le storie di ciascuno hanno realizzato che le morti dei loro cari sono legate da circostanze che spesso ruotano attorno agli stessi personaggi, istituzionali e non, come per esempio la presenza del funzionario di polizia Arnaldo La Barbera nella conduzione delle indagini sulle morti di Borsellino e della sua scorta e di Nino Agostino, o la chiamata in causa, da parte di magistrati e pentiti, del pregiudicato Rosario Pio Cattafi per i casi Caccia e Manca, o il coinvolgimento della mafia barcellonese negli omicidi di tutte le persone sopra citate.

Ma, soprattutto, queste persone hanno realizzato di non dover più combattere da sole. E’ questo ciò che mi hanno detto due di loro quella sera: “La nostra famiglia non è più sola contro quel nemico. Forse, chissà, così lo potremo accerchiare”. Quella frase mi ha fatto ricordare una fotografia scattata durante l’udienza finale del processo per l’omicidio di Federico Aldrovandi. Accanto alla famiglia del ragazzo erano sedute le famiglie di altre vittime, come a formare un fronte comune. Quel fronte comune che, da oggi, sono certa avrà anche la famiglia delle vittime delle mafie e delle omertà e dei depistaggi di Stato.

Da parte mia vorrei usare questo spazio che mi offre il Fatto Quotidiano per ringraziare pubblicamente quei familiari che hanno cercato e trovato la forza e, soprattutto, il coraggio di salire su quel palco e di combattere una guerra che è, sì, per la loro famiglia ma che, alla fine, visto il nemico da affrontare, è anche per tutte le famiglie d’Italia.

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