“La ‘Falange armata’ rievoca la partecipazione dei servizi di informazione deviati che cercano di interferire nella vita del Paese”. Lo spiega così il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho uno dei tratti più inquietanti dell’inchiesta ‘Ndrangheta stragista che stamattina ha portato all’arresto del boss calabrese Rocco Santo Filippone e del boss siciliano Giuseppe Graviano con l’accusa di essere i mandanti degli attentati ai carabinieri che si consumarono a cavallo tra il 1 dicembre 1993 e il 1 febbraio 1994. Alla conferenza stampa ha assistito anche Ivana Fava, la figlia del carabiniere Antonino Fava ucciso il 18 gennaio 1994 assieme al collega Vincenzo GarofaloUn agguato che, secondo i magistrati, rientra nella strategia stragista di Cosa Nostra e ‘Ndrangheta, così come gli attentati di Roma (via Fauro, San Giovanni in Laterano e Velabro), di Firenze (via dei Georgofili) e di Milano (via Palestro). Sono il frutto – è scritto nelle quasi mille pagine di ordinanza di custodia cautelare firmata dai gip Olga Tarzia e Adriana Trapani – “di un accordo tra mafia calabrese e mafia siciliana, portatrici dei medesimi comuni obiettivi, finalizzati a rompere con la vecchia classe politica e a colpire le istituzioni e la società civile, nell’ottica di ottenere benefici a proprio favore in specie in relazione all’applicazione del regime penitenziario di cui all’articolo 41 bis”.

LA “FALANGE ARMATA”  E L’OMICIDIO MORMILE – Boss e killer sanguinari, però, non hanno agito da soli. Nel provvedimento di arresto, si parla di “suggeritori” o “menti esterne” che hanno consigliato a mafiosi siciliani e ‘ndranghetisti di utilizzare la rivendicazione “Falange armata” usata per la prima volta nell’aprile 1990 in occasione dell’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile ucciso a Lodi, vicino a Milano, dai killer della cosca Papalia che, “su richiesta di non identificati esponenti dei servizi di sicurezza” utilizzarono “quella sigla per rivendicare il delitto”. Nel giugno 2015, il pentito Vittorio Foschini disse ai pm che “Antonio Papalia parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono”. Il riferimento è alla sigla “Falange Armata”: fu Antonio Papalia allora che ordinò a Brusca Totò di telefonare ad un giornale e dire la rivendicazione a nome di questa presunta organizzazione terroristica. Ciò avvenne sotto i miei occhi addirittura prima dell’omicidio”. Un delitto il cui movente è spiegato da un altro collaboratore di giustizia, Antonino Cuzzola. Ed è quest’ultimo che tira in ballo i servizi deviati in combutta con la cosca calabrese:  “Domenico Papalia, fratello di Antonio, aveva rapporti con i servizi segreti con i quali aveva colloqui nel carcere di Parma. Ciò appresi da Antonio Papalia in occasione della preparazione dell’omicidio dell’educatore carcerario Mormile. Mormile, a dire di Antonio Papalia, venne ucciso proprio perché si fece sfuggire con un detenuto di questi colloqui fra Domenico Papalia e i servizi segreti”.

LA “COMUNE RIVENDICAZIONE”, IL COPYRIGHT DELLA ‘NDRANGHETA E DEI SERVIZI DEVIATI – Dopo l’omicidio Mormile, in una riunione a Enna i vertici di Cosa nostra iniziarono a elaborare la strategia stragista “programmando – scrivono i magistrati – che le rivendicazioni dei futuri attacchi allo Stato sarebbero, pure, state eseguite con la ancora sostanzialmente sconosciuta sigla Falange Armata”. Così è stato per l’attentato di via Fauro che aveva come obiettivo Maurizio Costanzo ma anche per la strage dei Georgofili a Firenze e per gli attentati di Roma e Milano del luglio 1993. Tutte sono state rivendicate da una telefonata a nome “Falange armata”. Un’idea attuata dalla ‘ndrangheta e da Cosa nostra ma partorita da “alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato (il cui nucleo forte era costituito da una frangia del Sismi e, segnatamente, da alcuni esponenti del VII Reparto cossiddetti ‘Ossi’”. La rivendicazione “Falange Armata” proviene, quindi, da “settori dei servizi di sicurezza legati a Gladio a all’anticomunismo, dunque ostili al nuovo e legati al passato”. A tirare le fila è sempre Licio Gelli che, “in modo tanto arrogante quanto spudorato, sui mezzi d’informazione nazionali, nel 1993, quasi rivendicò la posizione degli stragisti, attribuendola ad un diffuso e giustificato malcontento contro la cosiddetta ‘partitocrazia’, che altro non era che la vecchia classe politica sotto la quale Gelli ed i mafiosi, avevano prosperato per alcuni decenni, ma che nell’attualità, evidentemente, non offriva più sponde”.

LA LETTERA AL COMMISSARIATO DI POLISTENA E LA TELEFONATA DOPO L’AGGUATO AI CARABINIERI – Anche dopo l’attentato sulla Salerno-Reggio Calabria del 18 gennaio 1994 in cui morirono i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, arrivò puntuale la rivendicazione con la sigla “Falange Armata”. Una lettera imbucata a Polistena il 2 febbraio 1994 e arrivata due giorni dopo alla locale stazione dell’Arma. Chi l’ha spedita “esprimeva compiacimento per la morte dei due carabinieri e auspicava che la stessa fine potessero fare tutti i militari in servizio nel paesino della Piana di Gioia Tauro: “Quanto ci siamo divertiti – era scritto – per la morte dei due carabinieri bastardi uccisi sull’autostrada è un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine cornuti e bastardi e figli di gran puttana”.

IL BOSS ROCCO SANTO FILIPPONE, IL MANDANTE PROTETTO DAL GIUDICE – Sposando l’impianto accusatorio dei pm Lombardo e Curcio, il gip definisce il boss Rocco Filippone “mandante, istigatore e organizzatore” dell’attentato ai carabinieri. Il suo nome non è noto come quello dei Piromalli ma Filippone negli anni si è ritagliato un ruolo di primo piano nel panorama criminale calabrese. Non è un caso, infatti, che a lui si rivolgono i siciliani di Cosa Nostra per ottenere il supporto della ‘ndrangheta alla strategia stragista: “Il collegamento della famiglia Graviano con le famiglie calabresi di ‘ndrangheta della zona tirrenica – è scritto nell’ordinanza – è evidente e salda ed unisce in un unico contesto la figura del Graviano con quella di Filippone Rocco Santo, quest’ultimo appartenente (in posizione apicale) alla ‘ndrangheta della zona tirrenica, ovvero proprio a quella branca con la quale le famiglie siciliane in questione mantenevano forti legami funzionali alla gestione di comuni interessi illeciti (come ad esempio, il traffico di stupefacenti) e proiettati anche ad incidere sull’eventuale esito di alcuni processi che avevano coinvolto i Graviano”.

Filippone era uno dei pochi, come ha sottolineato il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, a sapere che la ‘ndrangheta aveva deciso di partecipare alle stragi. Assieme al “più eminente esponente della ‘ndrangheta reggina Giuseppe De Stefano”, infatti, il boss di Melicucco ha partecipato alla famosa riunione “ristretta e preliminare” di Nicotera Marina dove i boss calabresi dovevano “discutere proprio della richiesta dei Graviano, lì presenti, e cioè di coloro che avevano guidato operativamente la strategia stragista continentale”. A quell’incontro ne seguirono altri “fra esponenti di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta che avevano avuto ad oggetto la partecipazione dei calabresi alla strategia della tensione”. Dall’attentato ai carabinieri, però, sono passati oltre 20 anni durante i quali Filippone è riuscito a mantenere un basso profilo. Il perché lo spiega il primo pentito della ‘ndrangheta, Pino Scriva, che a casa sua è stato anche latitante: “Nel corso della mia latitanza presso il Filippone ho visto con i miei occhi che lo stesso disponeva di armi, in particolare sia armi lunghe che corte”.

Ai pm della Dda, però, Scriva ha riferito delle protezioni di cui godeva il mandante della strage di Scilla anche nel mondo della magistratura: “Voglio precisare – dice il pentito – un particolare su Rocco Filippone: non è la prima volta che parlo di lui, feci il suo nome indicandolo come ‘ndranghetista all’allora Procuratore di Palmi, dott. Giuseppe Tuccio. Quando questi sentì questo nome, mi guardò e mi disse: ‘Rocco Filippone è amico di un mio amico di Reggio Calabria’. Capii al volo che Rocco Filippone poteva dormire sonni tranquilli ed in effetti non solo non è mai stato processato negli anni a seguire per reati associativi legati alla ‘ndrangheta ma, non fu scritto neanche il suo nome nel Verbale redatto dal dott. Tuccio in occasione dell’interrogatorio che io resi al predetto negli anni 1983-1984 presso la Caserma dei Carabinieri di Tropea”. È lo stesso Giuseppe Tuccio, magistrato in pensione e oggi imputato nel maxiprocessoGotha” dove, con ogni probabilità, confluirà anche il verbale dello storico collaboratore di giustizia Pino Scriva.

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