di Bruno Laudi*
In questi ultimi cinque anni il massacro dell’ordinamento del lavoro ha determinato anche un pesante intervento di modifica degli armonizzatori sociali.
Sotto la falce delle abrogazioni è finito anche l’articolo 3 della legge n. 223/91, che disciplinava e, soprattutto, garantiva l’accesso alla cassa integrazione per i lavoratori dipendenti di aziende sottoposte a procedure concorsuali (fallimento, concordato preventivo, amministrazione straordinaria, eccetera).
Per meglio comprendere la portata negativa della riforma è necessaria una breve illustrazione non solo del funzionamento di detto strumento, ma soprattutto della sua funzione.
L’articolo 3 della legge n. 223/91 riconosceva ai lavoratori dipendenti di aziende in crisi e sottoposte a una procedura concorsuale di poter usufruire della cassa integrazione per un certo periodo di tempo, evitando in tal modo il loro immediato licenziamento con la dichiarazione della procedura concorsuale.
La cassa integrazione per procedura concorsuale svolgeva svariate funzioni: prima di tutto, garantendo la tutela del reddito, evitava la dispersione dei lavoratori e la conseguente perdita per l’azienda di lavoratori, salvaguardando così, almeno in parte, i livelli occupazionali.
Nella gestione del trasferimento dell’azienda, il sindacato era chiamato a svolgere un ruolo decisivo per il mantenimento dei livelli occupazionali e per la ripresa dell’attività produttiva, in quanto, l’art. 2112 cod. civ. impone all’acquirente di azienda di assumere alle proprie dipendenze tutti i dipendenti, salvo deroghe concordate con accordo sindacale.
In spregio a tutto ciò, il nostro legislatore ha invece ritenuto di prevedere a partire dal 2016 la totale abrogazione della cassa integrazione in caso di procedura concorsuale.
Salvo le limitate ipotesi (ossia i rari casi di prosecuzione dell’esercizio di impresa durante la procedura concorsuale), adesso i lavoratori, dipendenti da un’impresa in procedura concorsuale possono subire l’immediato licenziamento, con due gravi conseguenze: ossia l’impossibilità di poter proseguire (ex articolo 2112 del codice civile) il rapporto di lavoro con l’impresa che rileva dalla procedura concorsuale la loro ex azienda e l’esclusione del sindacato dalle trattative di trasferimento dell’impresa.
In alternativa al licenziamento, si sta diffondendo l’estensione dell’applicazione dell’articolo 72 della legge fallimentare da parte degli organi della procedura, norma nata e prevista per disciplinare i rapporti commerciali e quindi di diversa natura e con interessi e diritti coinvolti ben diversi da quelli derivanti dal rapporto di lavoro.
Tutto ciò con seri e gravi problemi per i lavoratori, perché l’applicazione della norma fallimentare determina un effetto di “congelamento” del rapporto di lavoro, in buona sostanza il lavoratore continua a essere giuridicamente dipendente della procedura, ma non percepisce alcun reddito.
Dunque una sorta di incantesimo da cui il lavoratore potrà liberarsi solo imponendo agli organi della procedura, attraverso una specifica istanza al tribunale Fallimentare, di assumere una decisione riguardo il rapporto di lavoro. Se l’organo della procedura non assume alcuna decisione nel termine massimo di 60 giorni dall’intimazione, il rapporto si risolve per effetto di legge.
E qui si intravede il problema più grave per i lavoratori, perché ancora non è chiaro se questa ipotesi di risoluzione del rapporto dia diritto alla disoccupazione. L’Inps infatti appare rigida e poco propensa a riconoscere il diritto all’indennità per disoccupazione in questi casi, si teme cioè che l’Istituto escluda la risoluzione ex articolo 72 della legge fallimentare, come valido presupposto per il riconoscimento della prestazione.
Come si può immaginare, e alcuni lo potranno aver vissuto sulla propria pelle, la sospensione del rapporto costringe paradossalmente il lavoratore a dimettersi per poter approdare alla disoccupazione e dunque riuscire ad ottenere almeno un reddito. E potrebbe per giunta non bastare a ottenere il diritto alla disoccupazione, perché appunto l’Inps potrebbe non riconoscere il presupposto in quanto l’articolo 2119 del codice civile esclude che il fallimento possa essere giusta causa di risoluzione del rapporto.
A questa crudele beffa si aggiunge il fatto che la risoluzione del rapporto del lavoratore (sia ex articolo 72 della legge fallimentare che per dimissioni), determina la perdita del diritto a passare alle dipendenze dell’ipotetica impresa subentrante qualora la vendita concorsuale avesse risvolti positivi, con la conseguente esclusione del sindacato per le ragioni sopra esposte.
Questi dubbi interpretativi non sono stati ancora dissipati, quindi chi opera nel settore della tutela dei lavoratori non è ancora in grado di fornire quell’assistenza necessaria e, soprattutto, molto richiesta, perché le chiusure e i fallimenti di impresa continuano a susseguirsi determinando situazioni di grande angoscia e deprivazione materiale tra i lavoratori.
La grave situazione esige un intervento del legislatore volto a rivalutare la cassa integrazione ripristinando il vecchio regime o, quanto meno, estendendo la disoccupazione alle ipotesi di sospensione ex articolo 72 della legge fallimentare.
Quest’ultima soluzione non determinerebbe neppure un aggravio del costo di bilancio, in quanto non si tratterebbe che di anticipare gli effetti della disoccupazione, la quale comunque si esaurirebbe nei 24 mesi.
* Avvocato giuslavorista a Bologna, ha sempre difeso solo i lavoratori.