Il Pil, si sa, è un indicatore imperfetto del benessere di una nazione (Giuliano Resce, 2016). Perché?
1. Non considera il patrimonio: se un terremoto rade al suolo una città, il Pil non ne tiene conto. Anzi, la ricostruzione fa salire il Pil.
2. Non considera com’è distribuita la ricchezza.
3. Non considera come si distribuisce il reddito, né il grado di mobilità sociale.
4. Non detrae i costi sociali (danni ambientali, esaurimento delle risorse naturali, ecc.) delle attività produttive.
5. Include “beni” potenzialmente negativi come armi, tabacco, droghe, prostituzione, pubblicità. Stai male e chiami un medico? il Pil sale.
6. Non valuta il lavoro di casalinghe e volontari, l’agricoltura di sussistenza, e tutta la produzione non venduta sul mercato. Sposi la domestica? il Pil scende.
7. E’ difficile includere nel Pil i miglioramenti qualitativi. Eppure, le tv oggi sono migliori che nel 1980.
8. Calcola il valore dei servizi prodotti dalla pubblica amministrazione al prezzo di costo. L’assunzione clientelare di un nullafacente fa salire il Pil.
Nono, non dà valore a tutto ciò che non è “economico”: ma – per fare qualche esempio – carcerati omicidi suicidi alcolisti disoccupati speranza di vita libertà sono anch’essi indicatori dello Stato di salute, anche economico, di una società.
Questi e altri noti limiti del Pil non vengono corretti perché è difficile farlo. Ciononostante, il Pil resta l’indicatore di benessere e sviluppo più usato: “il meno peggio”. Ma gli indicatori distorcono: percezioni, valutazioni, politiche. Un governo valutato in base all’andamento del Pil trascurerà il resto. Di qui, i movimenti per la “decrescita felice” per “andare oltre il Pil”. Ora, una legge del 2016, fortemente voluta dal senatore Marcon, impone al Mef di inserire un indice di Benessere equo e sostenibile (Bes) nel Documento di economia e finanza (Def), mettendo così “al centro l’Uomo e non solo il suo conto in banca”.
Ma qui iniziano i problemi. Innanzitutto, l’Istat rende disponibili 130 indicatori di benessere. Quali mettiamo nel Bes? Il governo ne ha cooptati solo 12, nessuno “sintetico” o “composito” (combinazione di più sotto-indicatori): altrimenti non si capisce più cosa c’è dentro, e il messaggio politico non passa. Due di tipo tradizionale: il “Reddito disponibile pro capite” (simile al Pil). E il “tasso di partecipazione al mercato del lavoro” (più lavori, più aumenta il tuo benessere).
Poi, un “Indice di disuguaglianza del reddito disponibile”; due indicatori ambientali – “Emissioni di co2 e altri gas clima alteranti”; e “Tasso di abusivismo edilizio” -; uno sulla pubblica amministrazione, “Efficienza della Giustizia Civile”) ; uno di tipo sanitario forward looking (“Eccesso di peso corporeo”); uno sulla discriminazione di genere, e altri ancora. La lista evidentemente è del tutto arbitraria; però l’assenza di un indicatore della ricchezza è clamorosa.
Secondo problema: quanto deve pesare ciascun indicatore nel Bes? Irrisolvibile (Aldo Femia, 2017). Come confrontare pere e asparagi. Perciò l’agognato indice Bes in quanto tale non vedrà mai la luce: restano 12 indicatori, che viaggiano ognuno per conto suo.
Terzo problema: il salto dall’intento descrittivo a quello normativo. Inserendo il Bes nel Def il legislatore, oltre a “accendere un faro” mediatico su obiettivi sociali importanti, ha voluto che le politiche governative fossero disegnate e valutate per influenzare queste variabili. Perciò, “per ciascuno dei quattro indicatori, già introdotti sperimentalmente quest’anno, è necessario fornire uno scenario a politiche vigenti (tendenziale) e uno scenario che inglobi le politiche introdotte nel Def (programmatico)”.
In questa tabella del Def 2017, l’andamento programmatico migliora sempre quello spontaneo. Che valore hanno queste stime? Al Mef non manca l’impegno: “La metodologia seguita è di natura mista e calibrata sulle peculiarità di ciascun indicatore. Per le previsioni tendenziali è stato utilizzato un approccio prevalentemente econometrico con modelli di microsimulazione agganciati ai modelli macroeconomici utilizzati dal Mef e a un approccio simulativo per gli scenari programmatici”.
I 12 indicatori di Bes sono stati proposti al Parlamento, che dovrà esprimersi entro il 30 luglio. Altrimenti, varrà il silenzio-assenso (misteri della democrazia italiana), e i 12 verranno istituzionalizzati – a prescindere da eventuali cambi di governo – in modo da osservare negli anni come evolvono. Si vuole arrivare a valutare in futuro tutti i provvedimenti in base ai presunti effetti su di loro. Applausi.
Ma tutto ciò è pericoloso e distorsivo: il Parlamento dovrebbe respingerlo. Indurrà i governi a sovra-realizzare “i magnifici 12” a scapito del resto.