La procura di Reggio Calabria accusa il boss di Brancaccio di essere il mandante di un duplice omicidio: quello dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati a colpi di mitraglietta sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria. . Un assassinio che per anni era stato considerato come un fatto di sangue isolato. E che invece è da ricondurre alla strategia intrapresa da Cosa nostra proprio in quei primi giorni del 1994
Non solo il capomafia di Brancaccio, non soltanto il “coordinatore” delle “stragi continentali” e il boss che si era “messo il Paese nelle mani” grazie ad accordi mai dimostrati con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Quello che emerge dall’ultima inchiesta della procura di Reggio Calabria è un nuovo profilo di Giuseppe Graviano. Una ruolo interpretato dal padrino di Brancaccio fino ad oggi mai approfondito dalle indagini e dalle rivelazioni dei pentiti: quello di “uomo cerniera” tra Cosa nostra e la ‘ndrangheta.
È Graviano, infatti, l’uomo che coinvolge i calabresi nella strategia stragista progettata da Cosa nostra già nell’inverno del 1991 nel caso in cui la Cassazione avesse fatto diventare definitive le condanne del Maxi processo. Cosa che avvenne effettivamente in quella che è probabilmente la data che cambia la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992 è un giovedì e a Roma la Suprema corte stabilisce per la prima volta il carcere a vita per i boss mafiosi. Da quel momento l’Italia viene stravolta da un’escalation a colpi di bombe e tritolo che prima elimina i nemici storici di Cosa nostra, e poi si concentra su obiettivi più simili ad un attacco terroristico: è quello che è stato ribattezzato come l’attacco allo Stato di Cosa nostra. Al quale, però, hanno partecipato anche i calabresi.
Graviano, uomo cerniera tra due mafie –“La presente indagine ha dimostrato come, non solo la pista terroristica fosse coltivabile, ma, anche, fondata: pezzi importanti della ‘ndrangheta tirrenica — d’intesa con esponenti reggini — diedero assicurazione ai corleonesi, rappresentati da Giuseppe Graviano, di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra, che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell’ordine e, in particolare, i Carabinieri. Tali componenti `ndraghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere alla organizzazione degli attacchi ai carabinieri in terra calabrese”, scrivono gli investigatori coordinati dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. La procura di Reggio Calabria, infatti, accusa Graviano (e il calabrese Rocco Santo Filippone) di essere il mandante di un duplice omicidio: quello dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati a colpi di mitraglietta il 18 gennaio del 1994 sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, all’altezza dell’uscita di Scilla. Un assassinio che per anni era stato considerato come un fatto di sangue isolato. E che invece è da ricondurre alla strategia intrapresa da Graviano proprio in quei primi giorni del 1994.
Spatuzza e l’accordo coi calabresi – L’indagine degli investigatori calabresi, infatti, ha il merito di rileggere e mettere ordine tra un numero indefinito di episodi, racconti di collaboratori di giustizia, rivelazioni. Il risultato è un’unica ricostruzione dei fatti che – in un modo o nell’altro – portarono alla nascita della Seconda Repubblica. Un racconto ben sintetizzato dalle dichiarazioni che Gaspare Spatuzza ha messo a verbale davanti agli inquirenti, confermando l’esistenza di un accordo tra Cosa nostra e ‘ndrangheta. “La conferma di un complessivo accordo tra Cosa nostra ed altre organizzazioni di stampo mafioso nel periodo delle stragi – dice – ho potuto dedurlo in quanto, nel 1998, nel carcere di Tolmezzo, Filippo Graviano ebbe a dirmi a seguito di quanto io stesso gli avevo detto circa le rimostranza degli affiliati alla ‘ndrangheta e della camorra sulla durezza del 41 bis da imputarsi alla strategia stragista di Cosa nostra. Filippo Graviano mi disse che questi soggetti avevano ben poco che lamentarsi e che potevano chiedere spiegazione di quello che era successo ai loro padri“. Come dire: se il regime di carcere duro per detenuti mafiosi è stato inasprito dopo le stragi la colpa è anche dei calabresi che a quelle stragi hanno partecipato.
Il processo aggiustato e l’anello di congiunzione – Ma non solo. Perché Spatuzza è anche testimone diretto dei buoni rapporti tra piovre calabresi e siciliane. E in un caso probabilmente beneficiario. “Altro episodio che collega Cosa Nostra alla ‘ndrangheta – mette a verbale il pentito – posso riferirlo da quello che ho appreso nel corso della mia detenzione nell’anno 1998. Successe che nell’ambito del noto procedimento Golden Market i Graviano (detenuti con lui a Tolmezzo all’epoca ndr) mi dissero che dovevo ricusare il presidente della corte d’Assise di Palermo proprio all’ultima udienza, cosa che io feci e che determinò lo stralcio della mia posizione, cui seguì tempo dopo la mia condanna solo per l’associazione e qualche reato satellite con l’assoluzione per gli omicidi, dall’altra mi dissero che due franche di 500 milioni di lire l’una per il tramite di Agate Mariano erano state messe a disposizione degli amici calabresi che avrebbero ‘aggiustato‘ un processo che io dedussi essere uno dei filoni del Golden Market. In particolare si trattava di aggiustare questo processo in Cassazione e Giuseppe Graviano mi spiegò che gli amici calabresi, in particolare il riferimento era alla cosca Molé-Piromalli si sarebbero mossi su richiesta di Mariano Agate esponente di vertice di Cosa Nostra è certamente da considerarsi, l’anello di congiunzione fra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta”.
Il colpo di grazia e l’attacco ai carabinieri – Al netto dei rapporti tra calabresi e siciliani, però, i racconti del pentito di Brancaccio sono importanti soprattutto per un motivo: collegano tra loro i vari attentati compiuti contro i carabinieri. “Nel corso di questo incontro Graviano Giuseppe mi disse che avevamo ottenuto quello che volevamo, riferendosi all’accordo con dei nuovi referenti politici da individuarsi in Dell’Utri e Berlusconi, ma che bisognava dare comunque il colpo di grazia allo Stato e i calabresi già si erano mossi. Non mi specificò che genere di attività contro lo Stato avessero fatto i calabresi. Lo compresi giorni dopo non ricordo come dell’attentato in cui erano morti due carabinieri in Calabria”, ha raccontato il killer di Brancaccio riferendosi al famoso colloquio del bar Doney, in via Veneto a Roma, il 21 gennaio del 1994. Quello in cui Graviano “era molto felice” e “fa il nome di Berlusconi” del “nostro compaesano Dell’Utri” sottolineando che “grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia”. Prima, però, c’è da dare il colpo di grazia, visto che “i calabresi si erano già mossi”. “Io capii che il duplice omicidio dei carabinieri era quello commesso dalla ‘ndrangheta d’intesa con Cosa Nostra – episodio cui genericamente aveva fatto riferimento il Graviano con quella frase che ho detto sopra – in quanto proprio in quel periodo anche noi eravamo impegnati a fare attentati contro i carabinieri“, dice l’uomo al quale era stato affidato “il colpo di grazia”: un’autobomba piena di tondini di ferro piazzata vicino all’autobus dei carabinieri che curavano l’ordine pubblico davanti allo Stadio Olimpico di Roma. Un”attentato terroristico mafioso” (copyright dello stesso Spatuzza) che non verrà mai eseguito a causa del forfait del telecomando del detonatore. Il colpo di grazia salta anche per un altro motivo: il 27 gennaio vengono arrestati a sorpresa sia Giuseppe che Filippo Graviano. Il giorno prima, invece, Berlusconi aveva ufficializzato la sua discesa in campo con il famoso messaggio agli italiani. Da quel momento in poi, le stragi finiscono.
L’egemonia politica e Forza Italia – A questo proposito, i pm annotano: “Ulteriore elemento di rilievo va considerato il riferimento, anche in questo caso confermativo dei passaggi dichiarativi del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, alla circostanza che, poco prima dell’arresto del Graviano, le entità superiori che avevano inteso spingere mafie sul crinale della strategia stragista, avessero, poi deciso di interromperla. Ciò si spiega ove ci si ponga nella prospettiva dell’avvenuto raggiungimento dell’egemonia politica che doveva essere acquista attraverso il sostegno al nuovo partito Forza Italia“. Insomma: l’ipotesi è che gli attentati ai carabinieri siano stati una sorta di ultimo atto di una strategia della tensione da perseguire finché un nuovo ordine non fosse stato raggiunto. E proprio sul ruolo di Forza Italia e dei rapporti tra i Graviano, Dell’Utri e Berlusconi, la procura di Reggio Calabria ha utilizzato per la sua inchiesta anche le varie intercettazioni ambientali captate dai colleghi di Palermo durante l’ora d’aria che il padrino di Brancaccio ha trascorso con il codetenuto Umberto Adinolfi.
Le intercettazioni di Graviano – Gli investigatori reggini accreditano la genuinità delle dichiarazioni di Graviano, le considerano di “assoluto interesse gravemente indiziario” e le inseriscono nella loro ricostruzione, commentandole passo passo. “Berlusconi pigliò le distanze, fece il traditore“, dice Graviano intercettato il 19 gennaio 2016. “Dato questo – si legge nell’ordinanza – che conferma la convergenza, che si determinò nel 1994, fra le mafie e Forza Italia e, quindi, il passaggio che queste fecero dal progetto separatista a quello forzista; di rilievo vanno considerati anche i passaggi della conversazione aventi ad oggetto il mancato rispetto degli accordi fra Berlusconi e le mafie”. Tre giorni dopo, invece, il boss di Brancaccio dice: “Nel 1993 ci furono le stragi e le cose migliorarono tutte di un colpo. Io poi andai a Pianosa e non ti toccavano (si riferisce al fatto che prima — nel 1992/93 – venivano malmenati nelle carceri ndr). Nel 1994 lo stavano proprio togliendo il 41 bis c’era la Maiolo….poi arrivò Bossi”. Conversazioni che per gli inquirenti confermano “come l’accordo mafie/Forza Italia ruotasse intorno alla eliminazione del 41 bis“. Il passaggio forse più interessante delle intercettazioni di Graviano è, però, un altro. “Nel 1992 Berlusconi voleva già scendere“, dice il boss. Per gli inquirenti “si tratta di passaggio di rilievo in quanto dimostrativo dei rapporti consolidati fra Berlusconi e Graviano (evidentemente tramite Dell’Utri); rilevante anche il fatto che verosimilmente nel periodo immediatamente successivo e, comunque, in collegamento con la volontà di Berlusconi di ‘scendere in campo’, questi chiese a Graviano ‘una cortesia’; Berlusconi che aveva tutta la popolazione con lui, disse al Graviano ‘ci vorrebbe una bella cosa’ e questo avveniva quando ‘mi incontravo con lui’. Il boss di Brancaccio, poi, dice anche altro. Dice, per esempio che poi loro “non volevano più le stragi”. “L’apporto dichiarativo – annotano i pm reggini – non consente di comprendere appieno se chi non voleva più le stragi (e che, quindi, prima le voleva) fosse Berlusconi”. Un interrogativo non da poco.
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