Le polveri di minerale e ferro che dai parchi minerali dell’Ilva colorano di rosa le case, le strade, le cappelle del cimitero e purtroppo anche le vite degli abitanti del quartiere Tamburi di Taranto, ora avvelenano anche le strutture dell’hotspot per l’identificazione e lo smistamento dei migranti che arrivano al porto di Taranto. È quanto emerge dalla denuncia della Campagna Welcome Taranto che si prodiga da anni a favore dell’accoglienza e dell’integrazione di coloro che attraversano il Mediterraneo alla ricerca di una vita migliore. Sfuggiti alle guerre e ai rischi del mare, ora rischiano di “soccombere – si legge in una nota inviata alla stampa – sotto i minerali che vengono movimentati dal porto alla zona industriale”.
L’hotspot infatti è stato sistemato a qualche centinaio di metri dalle gru che dalle navi spostano le materie prima dell’Ilva sui nastri trasportatori che li trasferiscono nello stabilimento. Più vicino insomma delle case dei Tamburi. Nella denuncia partita dopo la pubblicazione di una foto scattata dal movimento ambientalista Peacelink, i volontari hanno evidenziato che “il colore delle tensostrutture dell’hotspot originalmente era bianco, ad oggi questi tendoni hanno assunto il colore nero carbone e rosso scuro come il minerale di ferro”. Lo stesso colore che, insomma, ha imbruttito e avvelenato l’intero quartiere a ridosso della fabbrica siderurgica. La foto è stata l’occasione per riaccendere i riflettori sulla struttura voluta a Taranto dal Ministero dell’Interno: “L’hotspot di Taranto – scrive Welcome Taranto – è uno di quelli, secondo la Guida per Rifugiati e Migranti redatta da Welcome to Europe, in cui si registrano ripetute violazioni dei diritti fondamentali, più volte documentate e denunciate dagli organi di stampa locali e nazionali”.
L’inquinamento dell’hotspot, però, non è un argomento del 2017: già nel 2016 un’altra foto di Peacelink aveva sollevato la questione sulla quale era intervenuta anche il Silp Cgil, sindacato dei lavoratori di polizia di Taranto che in una denuncia premesso che di non aver nulla “da eccepire sulle finalità umanitarie della struttura” ha tuttavia evidenziato che l’hotspot “non pare certo brillare di igiene e salubrità” vista la “concentrazione di emissioni di vario genere” che arriva “dalle alte ciminiere dei siti industriali circostanti”. Anche 12 mesi fa, quindi, si era ripresentato il problema delle “coperture delle tende, che originariamente erano bianche e hanno assunto – scriveva lo scorso anno il segretario Rosario Lima – in breve tempo una colorazione rossastra”.
Dopo le polemiche qualcosa si era mosso e la zona era stata ripulita. I parchi minerali, però, sono ancora lì a cielo aperto: a distanza di esattamente 5 anni dal 26 luglio 2012 quando il gip Patrizia Todisco ne dispose il sequestro, le montagne di ferro e carbone continuano a essere esposte ai venti che trasportano tonnellate di polveri ogni anno sulla città e non fanno selezioni tra italiani e stranieri. Della struttura ionica alcuni mesi fa si era occupata anche Amnesty International che aveva parlato di “eccessivo uso della forza e ricorso a trattamenti crudeli, disumani o degradanti, o addirittura alla tortura” per ottenere le impronte digitali di coloro che sono appena sbarcati. Donne e uomini che dovrebbero restare nella struttura per un massimo di 72 ore e poi raggiungere i centri di accoglienza e che invece restano sulle banchine anche per settimane. Una nuova ferita, quindi, che si riapre tenendo insieme l’annosa questione ambientale di Taranto e le conseguenze sanitarie su coloro che ci vivono. Migranti compresi.