Pechino si è impegnata a ridurre le emissioni su più fronti: introducendo sanzioni pesanti per chi infrange le norme ambientali e investendo massicciamente nelle rinnovabili. Lo scorso anno la Repubblica popolare è diventata il primo produttore al mondo di energia solare. Fra 15 anni oltre il 70% dei cinesi sarà da considerarsi inurbato e, di conseguenza, potrà fare uso di fonti energetiche più pulite rispetto al carbone, ancora largamente adottato nelle campagne
Cieli blu di Cina. Pechino ha delle chance di risolvere il problema inquinamento in appena una o due decadi anche grazie al fenomeno dell’urbanizzazione. A rivelarlo è uno studio pubblicato mercoledì sulla rivista Science Advances e realizzato da scienziati cinesi, francesi e americani, secondo il quale entro il 2030 il gigante asiatico tornerà a respirare un’aria simile a quella respirata negli anni 80, ovvero prima che il boom economico si traducesse in tassi d’inquinamento vertiginosi. Stando al report, infatti, la seconda economia mondiale potrebbe aver raggiunto il picco di PM 2,5 (mix di particelle dannose per la salute) già alcuni anni fa con una media di circa 60 microgrammi per metro cubo di aria.
Da quando nell’inverno 2012-2013 la Repubblica popolare è stata colpita da una vera e propria “airpocalypse” – con il 70% delle 74 principali città del paese affette da livelli d’inquinamento superiori agli standard di qualità dell’aria stabiliti dal governo cinese, più permissivi di quelli europei – Pechino si è impegnata a ridurre le emissioni su più fronti: introducendo sanzioni pesanti per chi infrange le norme ambientali (nei primi sei mesi del 2017 sono state comminate multe per 90,44 milioni di dollari in 503 casi), adottando nuove tecnologie produttive meno dispendiose in termini energetici, e investendo massicciamente nelle rinnovabili, per lo sviluppo delle quali la Cina ha stanziato 2,5 trilioni di yuan (370 miliardi di dollari) da qui al 2020 – lo scorso anno la Repubblica popolare è diventata il primo produttore al mondo di energia solare.
Ebbene, secondo lo studio, a tutto questo si aggiunge un fattore meno “mirato” ma ugualmente determinante nella lotta contro lo smog: l’urbanizzazione. Dando per buone le proiezioni del governo, nel 2030 la maggior parte della popolazione cinese sarà ormai concentrata nelle città. Per quel tempo, oltre il 70% dei cinesi sarà da considerarsi inurbato – rispetto all’attuale 60% – e, di conseguenza, potrà fare uso di fonti energetiche più pulite rispetto al carbone, ancora largamente adottato nelle campagne per cucinare e riscaldare le abitazioni. Calcolando l’impatto dei miglioramenti ambientali legati all’urbanizzazione, gli esperti ritengono sarà possibile evitare circa un milione di morti premature.
D’altronde, la Cina di oggi sembra seguire lo stesso percorso dell’Europa di ieri. Come spiega al South China Morning Post Wang Jingfu, professore di chimica presso la Tsinghua University, è possibile scorgere evidenti analogie con la Germania del dopoguerra. Il degrado ambientale causato dal rilancio dell’economia tedesca al termine del secondo conflitto mondiale è stato prontamente sanato tra gli anni ’70 e ’90 grazie a un efficiente piano governativo. Non ci sono motivi per dubitare che il gigante asiatico riuscirà a fare lo stesso. “È possibile tagliare l’inquinamento, pur mantenendo la crescita economica, servendosi dell’uso di nuove tecnologie”, pronostica l’esperto. Questo tuttavia non vuol dire che il problema smog verrà completamente debellato, soprattutto nelle grandi città come Pechino e Shanghai, dove la densità abitativa renderà più complicato ridurre i fattori inquinanti.
Proprio giovedì il ministero della Protezione Ambientale ha rivelato che nella prima metà del 2017 ci sono stati meno giorni di aria pulita rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Nonostante i blocchi del traffico e gli interventi contro l’impiego di combustibili fossili, il numero delle giornate di aria, buona o eccellete, nelle 338 città monitorate dal dicastero è sceso del 2,6%. Nella capitale il calo è stato addirittura del 7,1%. Lo scorso mese Pechino ha nominato un nuovo ministro dell’Ambiente nel tentativo di massimizzare gli sforzi. Il vicesegretario del partito dello Hebei, Li Ganjie, è andato a sostituire Chen Jining, promosso a sindaco pro tempore di Pechino. Un segno delle difficoltà incontrate sul campo quanto delle buone intenzioni del governo cinese.
Da quando Trump ha annunciato il ritiro degli Usa dall’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, la seconda economia mondiale, spalleggiata da India ed Europa, si è candidata ad alfiere dell’ecological correct. Un ruolo quanto mai gravoso considerato che nel 2007 il gigante asiatico ha superato gli Usa, diventando il primo emettitore al mondo di CO2.
L’abstract dello studio su Science
China Files per il Fatto