C’è stato un lungo periodo della mia vita, a partire dall’adolescenza, in cui ho amato allo spasimo soltanto i Pink Floyd. Stagioni intere di ascolti ingordi e ossessivi di tutti i loro album, mentre parallelamente il patinato pop di quegli anni (ottanta) trasmesso da Deejay television mi insegnava un po’ di inglese (qualcuno ricorda Video sing a song?). Intanto curavo quello che in futuro avrei definito il mio background musicale a suon di psichedelia.
Insieme a qualche amico dell’epoca, allestivamo molto acerbamente alcune cover, ricavando a orecchio accordi e arrangiamenti e analizzando struttura e genesi di brani mitici, immortali e ormai classici come Wish you were here, Comfortably numb, Hey you, Another brick in the wall e così via. Con precisione millimetrica, studiavamo la strumentazione di Waters, Gilmour, Mason e Wright tramite le riviste musicali che ne parlavano. Con il mio primo sequencer creavo le basi ritmiche mentre disquisivamo con aria da intenditori di quadrifonia e dei dinieghi con cui i Pink Floyd a volte proteggevano la loro musica.
Scrivo questo non tanto per parlarvi di me, ma perché immagino questa esperienza comune ai tanti ossequiosi estimatori come la sottoscritta, e forse simili gli albori di Fabio Castaldi (bassista e cantante), Andrea Fillo (chitarrista e cantante) e Andrea Arnese (che attualmente si dedica agli effetti audio e video e al keytar), primi fondatori dei Pink Floyd Legend. Nati nel 2005, hanno messo in scena, in questi lunghi e fruttuosi anni della loro carriera, esecuzioni integrali di album monumentali come The dark side of the moon e The final cut.
Fanno parte del gruppo anche Emanuele Esposito, Paolo Angioi e Simone Temporali, rispettivamente, batteria, chitarra e tastiere. In aggiunta ci sono il sassofonista Michele Leiss e le tre cantanti coriste Martina Pelosi, Sonia Russino e Giorgia Zaccagni. Chiamare questa formazione band tributo o cover band è riduttivo e fuorviante. Qui siamo in presenza di esecutori che, al pari di un Maurizio Pollini che interpreti i notturni di Chopin, si rivelano essere i migliori in circolazione nel fare proprio questo repertorio di perle classiche contemporanee. Circolano altre band che rendono omaggio al gruppo inglese, ma non raggiungono lo stesso livello.
Ho assistito a tre spettacoli dei Pfl, di cui uno a Roma dedicato al quarantennale di Animals e l’ultimo, qualche giorno fa, nel suggestivo scenario del Teatro Romano di Ostia Antica, dove hanno riproposto, insieme a una serie di brani tra i più famosi, l’immensa, toccante, spettacolare suite per coro e orchestra Atom heart mother. Non so descrivere, rendendogli giustizia, il tripudio di effetti visivi e sonori puliti e perfetti oltre alle impeccabili e precise esecuzioni.
Prezioso l’apporto del Maestro Giovanni Cernicchiaro che ha diretto ottoni, archi, e un grandissimo coro come solo sul palco del grande Maestro Ennio Morricone ho visto così numeroso e potente (Ottonidautore Brass Quintet, Quartetto Sharareh, Coro Arké, Coro della Basilica di S. Agnese fuori le mura, Coro polifonico Città di Anzio).
Posso confermare che ogni concerto è una carica d’intense emozioni che si rinnovano. La prima volta si va per curiosità e si rimane attoniti, sorpresi, in estatica contemplazione (come ad esempio durante gli indimenticabili e incantevoli vocalizzi di The great gig in the sky, la suggestiva Shine on you crazy diamonds, la commovente Echoes o la spettacolare In the flash). Successivamente si ritorna per ritrovare le sensazioni che ci hanno dato i concerti dei veri Pink Floyd (io ho avuto la fortuna di assistervi quattro volte, di cui una all’Arena di Verona) mentre viene confermata la sontuosità dell’interpretazione di questi ragazzi non scevra di una personalità che attraversa il palco per colpire il pubblico.
Se non fosse per qualche frase di saluto e ringraziamento dell’iper carismatico Fabio Castaldi (nel difficilissimo ruolo di Roger Waters), potremmo dimenticare di essere in Italia. Ci vuole tantissimo coraggio nel fare quello che fanno loro. Chi li ascolta conosce a menadito ogni nota degli originali e non perdonerebbe alcuna sbavatura, ma sono convinta che meglio non si possa fare.
A Ostia, nell’anfiteatro gremito, il pubblico era eterogeneo: nostalgici di epoche lisergiche ma anche tanta gioventù, una pluralità diversa unita dalla musica.
E allora, mentre io aspetto fiduciosa l’allestimento dell’intero The Wall voi altri, se non li conoscete, cercateli, ma soprattutto andate a sentirli dal vivo il prima possibile.