“Forza Lucas, dicci due parole per la Milano rossonera“, e il neo rossonero Lucas Biglia non si fa pregare: “Forza Lazio”.
“Co-come?”, balbetta esterrefatto il tifoso meneghino, “Lucas, cominciamo male eh”.
Eh sì cominciamo male, ma Biglia ha il duplice merito di aver portato un lampo di verità nel mondo tifoso e ottenebrato dello spettacolo calcistico. Nel modo più innocente e puro, come le spontanee e terribili verità sparate dai bambini con grande imbarazzo degli adulti, in due parole smonta l’insopportabile retorica della “lealtà alla maglia” quando a essere realmente in gioco è solo il prezzolato appartenere ai propri interessi.
Ecco perché quella di Biglia è una perla di comicità potente, un cortocircuito che irrompe a forza sulla scena delle rappresentazioni costruite in malafede, perché il suo lapsus è comunque più reale delle ragionate favole che si bevono i tifosi più sprovveduti. A Biglia non fu da meno nel 2008 Robinho, quando, appena acquisito dal Manchester City, disse solennemente: “Sono contento di aver firmato per il Chelsea”, lasciando di sasso i giornalisti accorsi in sala stampa per sentire le sue prime dichiarazioni.
Robinho aveva per tempo soppesato e valutato a quale maglia convenisse essere leale, evidentemente. Durante un comizio a Leeds nel 2015, l’ex premier britannico Cameron esortò i cittadini ad andare a votare: “Queste elezioni sono decisive per la carriera, per il Paese“. Confuse country con ‘career’ e non c’è ragione di dubitare che fossero vere entrambe, soprattutto la seconda. Il lapsus non ragiona, è annoiato e desiderante, imprevedibile, scanzonato e complesso, tradisce le ambivalenze di cui è pregna la nostra vita affettiva soggettiva e sociale.
Il calcio e la politica sono in fondo congegni estetici, hanno costruzioni molto diverse ma sono espressione di Bellezza nella misura in cui portano fuori verità, fosse anche la più amara. Potremmo forse azzardare che in un tempo di finzioni costruite ad arte, di seduzione e marketing, la Bellezza è ormai un ininterrotto lapsus, un’efficace rappresentazione che ci riconnette con la parte più autentica e imperfetta dell’esistenza, seppur da imprevedibili spiragli.
Saper perdere bene è nonostante tutto meglio che vincere male e oggi lo spettacolo circense del calcio-politica è spesso una messa in scena scadente e ipocrita, abbruttita da lifting seduttivi dietro cui ci sono aspirazioni di potere e denaro, dissimulate nella nauseabonda retorica del senso di appartenenza e lealtà.
Infatti, i politici più furbi comunicano ai cittadini con un desostanzializzato linguaggio pseudo calcistico fatto di “discese in campo e rigori sbagliati, di primi e secondi tempi” e simili idiozie per utili cretini. L’etimo di tifoso (typhos) rimanda infatti ad un offuscamento febbrile della mente e nello sport miliardario e nella politica degli affari non c’è nessun interesse a liberare gli ‘spettatori’ dalla narcosi intellettuale allineata e globale.
Già, la vera tragedia sono però loro: i molti tifosi del calcio e della politica che foraggiano questo interessato delirio neoteologico con testa, cuore e portafogli. Sequestrati da un circo mediatico demagogico e avido di “contatti” (leggi: clienti-elettori) relegano pensieri ed emozioni all’illusione di un inconsistente e virtuale protagonismo che nulla c’entra con lo sport né con la politica, almeno nel loro senso più profondo, ma semplicemente al regime consumistico.
Questa specie non ben quantificata di puerile tifoso vive in una sorta di spazio cibernetico dove, pur avendo coscienza delle cose, continua a bussare a pagamento alla porta di idoli taroccati e immaginari che non risponderanno mai ai suoi reali bisogni, e giustappunto perché “è” un tifoso.
Ma visto l’andazzo e gli interessi in gioco, affidiamoci ai lampi di verità (in campo e fuori campo) dei Biglia, Robinho e Cameron e di coloro che, sopraffatti da un sorgivo e inconscio comunicarsi, ci informano di come stanno le cose e della loro sincera ambivalenza.
L’attuale e ben formattato orizzonte socioculturale non lascia tuttavia supporre grandi cambiamenti: “Non mettiamo il carro davanti ai buoi, ma lasciamo i buoi dietro al carro” ebbe a dire mister Giovanni Trapattoni. Un lapsus visionario e attuale.