Nella bozza di direttiva proposta dalla Commissione, l'obbligo di pubblicazione dei dati su profitti e imposte versate in ogni Paese scatta solo oltre i 750 milioni di fatturato. Il Parlamento europeo ha aggiunto un'ulteriore scappatoia. Risultato: la norma toccherà meno del 10% delle grandi corporation. Intanto, nonostante gli scandali, languono anche le iniziative per chiudere i buchi legislativi che consentono alle aziende di spostare i profitti dove le aliquote sono più basse. I veri passi avanti sono merito dell'Ocse
Trasparenza? Sì, ma col buco. Non c’è Lux Leaks che tenga. E poco importa se l’evasione delle multinazionali sottrae ai paesi Ue tra i 50 e i 70 miliardi di euro l’anno di mancate entrate fiscali. Per i cittadini europei avere informazioni chiare e complete su quante tasse pagano i grandi gruppi attivi sul loro territorio resterà un miraggio. La bozza di direttiva sulla “divulgazione di dati fiscali da parte di alcune imprese”, votata il 4 luglio dal Parlamento europeo, prevede infatti così tante scappatoie che, se passerà senza modifiche, meno del 10% delle grandi corporation dovrà pubblicare sul proprio sito una scheda con numero di dipendenti, ricavi, profitti e imposte versate in ogni Stato Ue in cui opera. Nel frattempo anche le iniziative per contrastare concretamente l’evasione fiscale, a livello europeo, languono. Le principali novità in materia derivano non da mosse di Bruxelles, ma da impulsi dell’organizzazione parigina Ocse, il “club” dei 35 Paesi da cui deriva l’80% del pil mondiale.
La scappatoia che annulla la trasparenza “per proteggere dati sensibili” – La pubblicazione su internet dei principali dati societari e fiscali divisi per Paese di attività era considerata dalla Global alliance for tax justice un passo importante. In questo modo, era il ragionamento del movimento internazionale che chiede una più equa distribuzione della ricchezza globale, l’opinione pubblica avrebbe gli strumenti per capire se le multinazionali godono di trattamenti di favore o sfruttano schemi societari ad hoc per spostare i proventi nei Paesi fiscalmente più convenienti. Sottraendo risorse che potrebbero essere usate per servizi pubblici e infrastrutture. Ma l’europarlamento, chiamato a emendare la proposta presentata dalla Commissione nell’aprile 2016 per poi avviare i negoziati con il Consiglio europeo, ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte. Con una mano, su richiesta del gruppo S&D, ha rafforzato il testo della Commissione imponendo la pubblicazione dei dati disaggregati per ogni Paese (“country by country reporting”) invece che per le sole giurisdizioni europee e per i paradisi fiscali. Con l’altra, su spinta dei gruppi conservatori e dell’Alde, ha inserito un articolo che consente agli Stati membri di autorizzare i grandi gruppi a omettere “uno o più elementi di informazione” per “proteggere dati sensibili dal punto di vista commerciale e assicurare una concorrenza leale”.
Una clausola di salvaguardia che per il gruppo dei Socialisti e democratici “permetterà alle multinazionali di non pubblicare dati ritenuti sensibili per un periodo illimitato”. Transparency international Eu ha sottolineato dal canto suo che il testo “cerca di tenere insieme tutto”: da un lato “esibisce un forte supporto riguardo alla trasparenza sugli accordi fiscali delle multinazionali”, dall’altro “lascia loro la possibilità di avvolgere i loro affari in una cortina di segretezza”. Per Oxfam, la cui petizione contro i paradisi fiscali ha raccolto finora oltre 350mila firme, quella clausola rischia di minare l’efficacia del provvedimento nel contenere gli abusi.
Obbligo di pubblicazione dei dati solo se i ricavi superano i 750 milioni – C’è da dire comunque che anche la proposta iniziale dell’esecutivo Ue faceva acqua. la pubblicazione dei dati societari è stata (e rimane, dopo il passaggio in Parlamento) prevista solo per le multinazionali con almeno 750 milioni di fatturato annuo. Secondo lo European Economic and Social Committee, organo consultivo dell’Unione che ha tra l’altro il compito di fornire pareri a Parlamento, Consiglio e Commissione, fissare questa soglia equivale ad escludere l’85-90% delle aziende attive in più di un Paese. Perché non tutte le multinazionali hanno la stazza dei big statunitensi: l’Italia, per esempio, conta decine di medie aziende della meccanica, dell’alimentare e dell’abbigliamento con sedi in più di un Paese ma fatturati inferiori a quella soglia. “Applicare la misura proposta soltanto ad un simbolico 15% di questa categoria di imprese vorrebbe dire perdere di vista le preoccupazioni di quasi ogni cittadino europeo”, aveva avvertito lo scorso anno Victor Alistar, relatore del parere del comitato. Preoccupazione identica a quella espressa dallo European Network on Debt and Development, un gruppo di ong che si battono per un sistema finanziario più equo. Ma l’asticella è rimasta invariata.
Le promesse di Dijsselbloem e Moscovici dopo il caso Apple – La commissione si era mossa dopo che la responsabile della concorrenza Margrethe Vestager, al termine di due anni di indagini, aveva dichiarato “non conformi alle regole europee” i trattamenti fiscali di favore concessi rispettivamente da Lussemburgo e Paesi Bassi a Fiat finance and trade e Starbucks, chiedendo ai due gruppi di restituire almeno 40 milioni. In agosto poi Apple sarebbe stata chiamata a sborsare 13 miliardi: l’equivalente delle tasse non pagate grazie a vantaggi non dovuti concessi dall’Irlanda. Dove, secondo la Commissione, il gruppo della Mela spostava i profitti realizzati nel resto dell’Unione per approfittare dell’aliquota ultraconveniente (meno dell’1%) concordata con Dublino. “Il mio messaggio alle multinazionali è: state combattendo la battaglia sbagliata. E’ tempo di voltare di pagina, i tempi stanno cambiando”, aveva tuonato poche settimane dopo il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. “Dovete pagare le tasse in modo corretto, parte negli Usa e parte nell’Ue. Preparatevi a farlo”. “In Europa c’è un profondo squilibrio tra il carico fiscale di multinazionali e piccole e medie imprese, con queste ultime che pagano il 30% di tasse in più, una situazione inaccettabile”, aveva attaccato per parte sua il commissario per gli Affari economici Pierre Moscovici. Il momento, insomma, sembrava propizio per imporre una “glasnost” ad ampio raggio. Sembrava. Ma, tra soglia di fatturato troppo elevata e clausola di salvaguardia, la trasparenza di fatto sarà molto limitata. Intanto, mentre non solo Apple ma anche il governo di Dublino hanno fatto appello contro la decisione della Vestager, pure le iniziative europee per contrastare concretamente l’evasione languono.
Arenata la lista dei paradisi fiscali. Base imponibile consolidata in discussione dal 2011 – La lista comune delle “giurisdizioni non cooperative“, vale a dire i potenziali paradisi fiscali, avrebbe dovuto essere completata entro la fine del 2016: invece il progetto si è arenato alla selezione dei criteri, delle linee guida e delle “misure difensive” da adottare. Quanto alla proposta di definire una base imponibile consolidata comune a livello europeo per l’imposta sulle società, parte di un più ampio “piano d’azione sulla tassazione delle corporation”, se ne parla dal 2011 ma l’opinione della commissione giuridica del Parlamento europeo arriverà solo il prossimo dicembre. E si attende ancora il pronunciamento dello European economic and social committee. Eppure unificare la base imponibile significherebbe sbarrare la strada allo shopping fiscale delle multinazionali (la pratica di spostare gli utili nei Paesi più compiacenti dal punto di vista della tassazione) e impedire agli Stati di concedere alle aziende aliquote agevolate con accordi come quelli (più di 500) siglati dal Lussemburgo quando il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker ne era primo ministro e finiti al centro dello scandalo dei LuxLeaks. Ne hanno beneficiato 340 multinazionali, dalla holding di Ikea a FedEx, da eBay a Telecom, passando per Fininvest e Intesa Sanpaolo.
I passi avanti nella lotta all’evasione? Merito dell’Ocse – Allargando lo sguardo, salta all’occhio che le principali novità in materia di lotta all’evasione sono scaturite non da mosse di Bruxelles, ma da impulsi dell’organizzazione parigina Ocse. Che ha promosso per esempio gli accordi sullo scambio automatico di informazioni fiscali firmati ormai da 100 Paesi. Compreso Panama, lo Stato dell’America centrale dove ha sede lo studio legale Mossack Fonseca che, come rivelato dall’inchiesta giornalistica internazionale nota come Panama Papers, gestiva i soldi di migliaia di personaggi noti creando società e conti offshore. Il sistema di condivisione automatica (Crs) è in vigore da quest’anno e entro il 21 agosto è prevista la prima comunicazione degli intermediari italiani, che dovranno inviare alle Entrate i dati su conti correnti, depositi, titoli e altre attività detenuti da persone residenti all’estero. Nel 2014, poi, l’Ocse ha messo a punto un articolato pacchetto di linee guida contro erosione fiscale e spostamento dei profitti in Paesi a bassa tassazione (Beps). Fenomeni che stando alle sue stime sottraggono ai Paesi del G20 fino a 240 miliardi l’anno. Più di 70 Stati hanno sottoscritto, su quella base, un accordo multilaterale che prevede diverse azioni concrete: dal divieto all’uso di società veicolo con finalità elusive all’obbligo per le multinazionali di fornire un rapporto delle loro attività Paese per Paese. Proprio il tema della proposta di direttiva votata dall’Europarlamento. Se non fosse per quella scappatoia che la svuota di efficacia.